sabato 26 luglio 2014

laissez faire e liberismo

   A conferma dell'osservazione che Leonardo Sciascia, ma non solo, faceva sulla "doppiezza" che da secoli caratterizza la cultura nazional popolare italiana ("non c'è cosa o azione nel nostro paese che non sia viziata dalla doppiezza..."), faccio notare come neanche le parole sfuggano a questo destino, fino a generare una totale insicurezza sul loro significato.
   Si pensi al destino di termini come "politico", che da "servitore della comunità" è diventato un insulto: "ladro". O come pedofilo [dal greco παις, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto)], da "persona che ama i bambini" è diventato sinonimo di "orco che li violenta"; fu per questo che mi passò la voglia di fare il filantropo, da grande: sarebbe arrivato un giorno in cui sarei stato preso per un cannibale! Nel campo dell'economia poi, l'aggettivo "grande" è del tutto scomparso, sostituito da "importante": qualche giorno fa in TV mi aspettavo che un esperto di finanza che ne aveva ampiamente abusato si scusasse per aver avuto "un importante starnuto".
   Non c'è perciò da stupirsi se sorte analoga sia toccata a "liberismo", termine che nella vulgata corrente viene confuso con il "laissez faire" in uso nei paesi anglosassoni, nato in antitesi a protezionismo. Ma mentre "laissez faire" sta ad indicare un'assenza assoluta di intervento statale in economia, e cioè una pratica scomparsa almeno da quando le banche centrali cominciarono a vendere obbligazioni e stampare nuova moneta per finanziare imprese economiche senza entrate fiscali, nel mondo anglosassone il limitato uso di queste "novità" fu accettato senza il bisogno di neologismi. In quello europeo continentale, e in primis in Italia, fu coniato invece il termine "liberismo" da Benedetto Croce che in polemica con Luigi Einaudi sosteneva che il termine liberalismo non presupponeva necessariamente il diritto di proprietà e di iniziativa economica; idea, questa, assolutamente sconosciuta per secoli dove il liberalismo era nato.
   Come se non bastasse, anche se ormai da quasi un secolo John M. Keynes ha dimostrato (e poi la necessità ha imposto ovunque) che l'intervento dello Stato, se limitato in ampiezza e durata, può facilitare l'uscita dalle fisiologiche crisi del sistema capitalista, qui da noi la semplice constatazione che il 55% del PIL annuale gestito dallo Stato è una violenza alla teoria keynesiana viene fatalmente etichettata con nuovi e terrorizzanti neologismi: neoliberismo, liberismo selvaggio, austerità....

   Da una vita cerco invano di convincere amici pur intelligenti (e convinti di non avere una cultura precapitalista di stampo cattolico) che la vita e le opere di liberisti illustri come Luigi Einaudi o Ernesto Rossi (Abolire la miseria) stanno lì a dimostrare che i liberisti sono tutt'altro che gretti egoisti dediti solo ai propri interessi materiali. A loro attenuante, questi miei amici hanno solo l'avvenuta appropriazione dell'aggettivo in questione da parte di quasi tutti i nostri imprenditori, pseudocapitalisti mungitori di risorse statali; appropriazione, bisogna dirlo, consentita dalla mancanza di anticorpi sani nella nostra cultura nazional-popolare.
Continuo la mia predica al vento proponendo alla vostra attenzione questo ottimo articolo, spaziante nei campi della politica, dell'economia, dell'energia e dell'ambiente:

http://derrickenergia.blogspot.it/2011/11/einaudi-la-raffinazione-e-i-salvataggi.html

Einaudi, la raffinazione e i salvataggi industriali 
martedì 15 novembre 2011

“Uno dei fattori più efficaci del successo, della prosperità e dell' attitudine delle imprese economiche a dare ai lavoratori la massima occupazione possibile è la sanzione del fallimento per le imprese male gerite. Sembra in ogni caso difficile dimostrare che il miglior sistema di garantire dalla fame i lavoratori sia di accollare siffatta responsabilità a singole imprese, invece che alla collettività”.
Questo è Luigi Einaudi che nel 1954 risponde a una nota di Piero Calamandrei in cui quest’ultimo teorizzava la dicotomia tra il “diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Einaudi nella sua risposta – pubblicata dal Corriere della Sera del 22 ottobre scorso e disponibile sul web – nega la dicotomia, visto che nega che siano le aziende a dover fare welfare. Le aziende, si potrebbe volgarizzare, devono fare i soldi, nell’alveo di regole e legalità, contribuendo con le tasse alla redistribuzione dei redditi, compito questo invece dello Stato. Dunque non dicotomia tra successo imprenditoriale privato e welfare, ma interdipendenza.

Se non mi sono perso l’articolo del Corriere è grazie a un altro giornale, Quotidiano Energia, che ha pubblicato il 28 ottobre un pezzo di Diego Gavagnin che commenta le richieste di Unione Petrolifera in termini di protezione sul mercato europeo dei prodotti petroliferi raffinati. Mercato difficile perché da un lato i consumi hanno iniziato a flettere, dall’altro c’è la concorrenza dei biocarburanti.

Inciso: qualche giorno fa The Wall Street Journal Europe dava conto dei primi casi di utilizzo di biocombustibili sui jet commerciali, in un articolo il cui titolo con un gioco di parole diceva che le aviolinee “are frying high” (stanno friggendo alto), anziché “flying high” (volando alto). In riferimento all’olio commestibile per frittura che ricondizionato è un biocombustibile.

Ora, la crisi della raffinazione italiana non è forse un caso di “impresa male gerita”, per usare l’espressione di Einaudi. Bensì di eccesso di capacità a fronte di concorrenza di altre fonti e contrazione della domanda di combustibili. Un caso come tanti nell’evoluzione economica e tecnologica. Gavagnin dubita che una protezione del settore renderebbe più ricca non solo la collettività, ma anche lo stesso settore, che se protetto perderebbe competitività. E fa l’interessante parallelismo con l’industria nucleare francese – a lungo protetta – che ora, scrive Gavagnin - non è più in grado di sostituire i vecchi impianti che stanno per cessare la produzione.

Affermazione forte, che non ho gli elementi per approfondire ora, ma su cui proverò a lavorare in qualche Derrick futuro. Ciò che per ora è lampante è che la tecnologia sostanzialmente francese dell’EPR, European Pressurized Reactor, non è per ora stata in grado di portare alla luce nessuna creatura. La prima prevista, il famigerato impianto di Olkiluoto in Filnadia, in grave ritardo di realizzazione, ha appena ammesso un nuovo aumento dei costi, ormai previsti quasi doppi rispetto ai preventivati.

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