venerdì 29 giugno 2012

fantascienza e nostalgia


   Avevo vent'anni, un bambino nascosto da anni in una corazza più pesante di una palla al piede, una paura folle di uscirne e una voglia folle di vivere e di conoscere. Lui non sapevo chi fosse: mi capitò in mano un pezzo di carta a stampa, gli occhi avidi selezionarono un paio di righe: "Il viaggio del futuro non sarà fuori del sistema solare ma dentro il sistema uomo" - Clifford Odets. Il suo presidente si chiamava J.F.Kennedy. Scrissi quella frase su un mio diario.
   Certo non fu Odets a tarpare le mie ali per la fantascienza; da tempo la mia breve e dura infanzia me l'aveva etichettata come fantasia da ricchi. Ma impresse spinta e coraggio a quella brama di conoscenza che è stata, a ben vedere, la molla della mia vita.
   Oggi, bambino senza corazza ormai ricco di conoscenza, so perfino che Clifford Odets fu drammaturgo, sceneggiatore e regista, e che il Kubrick di 2001 doveva conoscerlo bene. Anche grazie a lui, in questo atterraggio morbido che è il crepuscolo del mio lungo viaggio ai confini di quest'universo che io sono, comodamente adagiato su quel socratico "so di non sapere" che grazie alla conoscenza non temo più (almeno di molte falsità ne ho certezza), posso permettermi un attimo di quell'altra fantasia da ricchi che chiamano nostalgia: per quel mio diario di ventenne, perduto chissà dove nella mia odissea nello spazio e nel tempo.

mercoledì 27 giugno 2012

lotta di classe

E' ora di confessarlo: sono un moralista. Se fossi un personaggio ad esposizione mediatica, come Elsa Fornero, mi troverei da qui a pochi minuti messo alla gogna on line per questa mia improvvida ammissione, ma per fortuna non mi caga nessuno e posso così sfoggiare un coraggio del tutto virtuale. Con il vantaggio di poter spiegare il senso di tanta impudenza in tempo reale, senza incorrere nella vergogna dei titoli del giorno dopo, tipo "Rottamatoio fa marcia indietro".
   In un paese di controriforma, moralista è sinonimo di Savonarola. In un paese di controriforma, quando non se ne può più di una corruzione insostenibile, l'indignazione secerne antidoti peggiori del male, come ciarlatani fondamentalisti e inquisitori spietati. In un paese dove l'indignazione ha prodotto la riforma religiosa, come il Regno Unito, il termine moralista è stato usato, nel senso corretto del termine, per designare gli studiosi dei costumi (mores) di un popolo, così che un gruppo di pensatori tra cui i filosofi David Hume e Adam Smith furono onorati e classificati come "moralisti scozzesi" e contribuirono all'illuminismo anglosassone, a differenza del Savonarola e dei suoi persecutori che due secoli prima contribuirono all'oscurantismo italico.
   Perciò faccio marcia indietro e chiarisco: sono un moralista nel senso anglosassone. E sono affascinato dallo studio dei costumi dei miei conterranei. Questo mio vizietto mi ha portato ad una miriade di osservazioni che man mano vado sciorinando in questo mio sfogatoio semiprivato. Niente panico: questo post riguarda una sola di tali osservazioni.
   In qualsiasi paese dove la profezia marxista ha avuto radici estese e profonde le conseguenze per la popolazione sono state tragiche: URSS, Europa orientale, ex Jugoslavia, Albania, Cambogia, Vietnam, Birmania, Cina Maoista. In Italia, dove per mezzo secolo il più forte partito comunista dell'Europa occidentale ha egemonizzato la sinistra, la cultura e la presenza sul territorio, le conseguenze sono state invece semplicemente comiche.
   La profezia del buon Carlo Marx, che, grazie alla LOTTA DI CLASSE, aveva previsto "scientificamente" la scomparsa delle classi con l'abolizione della borghesia e dello stato, si è dissolta in un processo che non ha visto, come previsto, la crescita di una coscienza di classe capace di trasformare il sottoproletariato (lumpenproletariat = proletariato straccione) in proletariato riappropriatosi del proprio lavoro, ma piuttosto il proletariato fondersi con la piccola borghesia per trasformarsi in "lumpenaristokratie" (aristocrazia stracciona), priva di qualsiasi coscienza di classe o almeno di comunità, preoccupata solo di conservare i privilegi conquistati a scapito degli esclusi.
   In periodi di crisi economica come l'attuale, tale conservatorismo assume forme d'isteria collettiva contro quella CLASSE DIRIGENTE che, come succede in tutte le democrazie, anche le più imperfette, i nostri aristocratici straccioni si sono scelti per decenni, con i loro politicanti incapaci e/o corrotti, i loro sindacati corporativi, i loro imprenditori ladri o mendicanti, il loro stato sprecone e protezionista. E si indignano, si mobilitano, si rivolgono ai nuovi ciarlatani populisti minacciando linciaggi e cimiteri.
   MI VIENE UN DUBBIO: non sarà che dietro tutta questa indignazione il moralismo controriformista nasconde un po' d'invidia dei fregati per i fregatori?
   CI SONO! LA LOTTA DI CLASSE ESISTE ANCORA: TRA LA CLASSE DIGERENTE E LA CLASSE ROSICANTE(*)!

(*) - Dal coatto romanesco "rosicare", rodersi il fegato per invidia o rabbia.

lunedì 25 giugno 2012

affanc. la democrazia - un mostro chiamato equivoco

25 giugno 2012 - Il più funesto dei cretini si aggira per il mondo, esonda nelle piazze, dilaga nei media, splende nelle analisi dei politologi, s'intrufola in ambiti non suoi, minaccia lo sviluppo del pianeta. Non è un umano, è un mostro.
Il più impopolare di tutti gli antipatici della storia, Winston Churchill, con l'ingenuità insita in ogni estremismo (compresi perciò sia quello conservatore che quello anglosassone) aveva cercato di avvertire il mondo: "La democrazia è solo il peggior sistema di governo, ad esclusione di tutti gli altri". Fu proprio la sua sicurezza di tradizionalista liberale anglosassone a fregarlo. Non poteva neanche immaginare che fuori dell'ambito anglosassone, dove la democrazia moderna era nata, la mancanza dell'aggettivo "liberal" avrebbe generato di lì a poco il mostro, a causa proprio del trionfo della liberaldemocrazia sulle dittature di tutto il mondo.
Questo mostro si chiama Equivoco Democratico. Democrazia significa potere del popolo. Ma popolo è un termine olistico e come tale radicalmente antiliberale, presupponendo che l'Uno (la società) sia superiore alle parti che lo compongono, mentre la rivoluzione culturale liberale consiste proprio nel sostenere che l'individuo è portatore di diritti inalienabili da chicchessia, stato e popolo compresi. Perciò quando si usa il termine popolo si parla di qualcosa di inesistente, un'unità non dimostrabile; per onestà intellettuale bisogna almeno ammettere che si parla di maggioranza del popolo. Quindi si deve ammettere che democrazia significa volontà o potere della maggioranza. E come la mettiamo se la maggioranza del popolo decide che a pagare le tasse siano solo i cittadini con gli occhi chiari? O che agli ebrei , ai musulmani o ai buddisti non vanno riconosciuti gli stessi diritti dei cristiani (o viceversa)?
Approfittando della dimostrata superiorità della liberaldemocrazia anche in termini di forza, il cretino di nome Equivoco Democratico dilaga mostruosamente nel mondo con l'appoggio consapevole o, peggio, inconsapevole dei cronisti ed opinionisti che dai mass media inondano le plebi ignare con pistolotti sul mito salvifico della democrazia, sistema politico perfetto, sempre liberatrice da ogni tirannia. E sempre dimenticando quell'indispensabile aggettivo "liberal" che ne fa solo il peggior sistema di governo esclusi tutti gli altri.
Con conseguenze che vanno dalla partitocrazia italiana (in cui poche oligarchie di partito usano il consenso strappato a cittadini ridotti a plebe per fare carta straccia di princìpi costituzionali e di leggi da loro stessi votate, con l'appoggio di quella magistratura che ora tende a presentarsi come salvatrice della patria) alle democrazie "popolari" con elezioni a partito unico, alle teocrazie "democratiche" che consentono di candidarsi solo ai politici approvati dal clero, e via via con quella fantasia che caratterizza la specie umana.

Sia chiaro: il liberalismo, a sua volta, di per sé non è democratico. Si può immaginare un regime liberale illuminato autocratico, che lascia la massima libertà ai cittadini ma senza diritto di voto. Naturalmente non durerebbe a lungo, vittima dei propri errori. Solo il grande "compromesso storico" tra liberalismo e suffragio popolare, la liberaldemocrazia, ha dimostrato di poter resistere nel tempo.

In altre parole, una democrazia senza garanzie intoccabili a tutela delle libertà individuali e senza divisione dei poteri è nel migliore dei casi solo una breve parentesi prima della dittatura, come dimostrano la democrazia dell'antica Grecia o l'ascesa di Hitler. Dalle democrazie mediorientali non mi aspetto nulla di buono o di meglio delle tirannie precedenti.
E dispiace notare che neanche i liberaldemocratici più solidi si accorgano di essere complici del mostro quando continuano a tessere gli elogi della "vera" democrazia ritenendo superfluo chiarire cos'è che la rende vera, come se stessero parlando agli studenti di una facoltà di scienze politiche. Perfino negli Stati Uniti un analista conservatore, Fareed Zakaria, sentì il bisogno di allertare l'opinione pubblica sul mostro, con il suo "Democrazia senza Libertà - in America e nel resto del mondo".
Nell'edizione italiana (Rizzoli - 2003) il risvolto di copertina sentenzia che il saggio di Zakaria è "destinato a lasciare tracce profonde nel pensiero politico".
Da sbellicarsi dal ridere! Affanculo la democrazia, lunga vita alla liberaldemocrazia, base della società aperta, imperfetta e riformabile!

sabato 23 giugno 2012

democrazia come finzione: il re è nudo?


Dopo 65 anni di repubblica e di "democrazia immatura" la crisi della partitica (non tiriamo in ballo la politica, che è cosa seria e sconosciuta agli italiani) sta prendendo le forme del Re Nudo. Un popolo che per cultura popolare controriformista non ha mai capito la liberaldemocrazia, è stato tenuto a freno per tutto questo tempo da una classe partitica che con i meccanismi tipici del tribalismo e facendo leva su sentimenti di appartenenza e identità sub-nazionali, (guelfi e ghibellini, fascisti e comunisti, nord e sud, ricchi e poveri, colti e analfabeti...), ha usurpato il potere dei cittadini riducendoli a sudditi.
Ora, e solo per una sopraggiunta crisi economica con radici prevalentemente estere, la crisi di questo sistema di governo sembra irreversibile. Ma la direzione non sembra affatto quella verso una democrazia matura, una liberaldemocrazia in linea con la nostra modesta Costituzione del 1947, ma piuttosto l'italiano medio sembra dire: "il Re Partito è morto: basta con la finzione della democrazia, riprendiamoci il potere".
Mi fa pena l'annaspare dei capipartito intenti a rivendicare, ad occhi sempre più bassi, le insostituibili funzioni democratiche dei loro apparati dai teleschermi davanti ai quali milioni di famiglie sghignazzano indignate. Ma mi fanno ancora più pena quei conduttori TV da superficializzazione della notizia che con riflessi pavloviani non riescono a coinvolgere un solo politico (pochi, ma ce ne sono) che possa affermare senza arrossire che "i partiti sono le gambe della democrazia, ma non QUESTI partiti tribali".
Mi fa invece molto piacere che furono due donne, Simone Weil  e Hannah Arendt, già negli anni 30 e 40 del secolo scorso, a capire che solo i partiti in senso anglosassone sono funzionali alla democrazia politica (o liberal-democrazia), mentre i partiti europei continentali, con la loro pretesa di valori indisponibili sono strutturalmente totalitari, come fascismo, nazismo e comunismo dimostrarono a chi volle vedere l'abbagliante verità. Gli italiani non fecero mai i conti con il loro vissuto fascista, si limitarono ad esorcizzarlo; come non lo fecero con la loro ubriacatura comunista-trasversal-statalista, tuttora perdurante sotto le ceneri leghiste e le scintille grilliste.
E qui vengo al punto. Esiste nella natura umana una difficoltà genetica a comprendere quel meccanismo che nelle scienze naturali viene chiamato "emergenza", cioè la nascita di qualcosa che pur essendo composta di elementi preesistenti acquista natura sua propria e funzioni di complessità superiore alla somma delle sue componenti. L'esempio classico è la prima cellula vivente, composta di atomi e molecole minerali o chimiche, non viventi. Un altro è la mente pensante, con funzioni superiori a quelle puramente motorie del sistema nervoso primitivo.
Io penso che tutto quello che noi chiamiamo civiltà, e che ci permette per esempio di spostarci sul territorio senza portarci dietro la clava, sia un'emergenza della mente che attraverso la finzione del diritto, della delega della violenza ad un monopolio pubblico, e a tutte quelle istituzioni che compongono lo stato moderno, ha prodotto una nuova emergenza: quella sofisticata finzione che è la liberaldemocrazia, impropriamente detta  democrazia.
Guardando spassionatamente la realtà mondiale, non credo si possa negare che nelle democrazie più mature esistano condizioni migliori di vita per chi voglia cercare la propria felicità, senza mai dimenticare che tale ricerca resta sempre un compito dell'individuo, non delegabile ad uno Stato salvifico né tantomeno alla democrazia. Ma tutto ciò parte dalla finzione che nessuno ci minacci, o ci uccida, o ci depredi dei frutti del nostro lavoro e di ciò che abbiamo costruito. Solo la partecipazione di una quota sufficiente di popolazione a questa finzione fa sì che la civiltà emerga. Senza tale condizione non basterebbero gendarmi, tribunali e religioni a salvarci dalla barbarie, come ci insegna la Somalia.
Ma anche nei paesi più civili come la Norvegia basta un esaltato alla Breivik per mettere a nudo la fragilità della finzione che è alla base della civiltà costruita in millenni di volontà comuni ma mai generali. Eppure quella finzione, applicata ad ogni aspetto della vita sociale, ci permette una vita sempre più lunga e perfino di considerare la sicurezza anche economica un diritto civile, almeno per molti (non per me). E invece non dobbiamo mai dimenticare che non c'è nulla di più precario della vita, e che la finzione della democrazia è un bene preziosissimo che va difeso contro le usurpazioni dei potenti e il nichilismo degli incazzados. Senza doversi inventare chissà quali "nuovi" metodi di governo; basta applicare e rispettare quelli che hanno già dimostrato di funzionare e, poi, semmai migliorarli a piccoli passi con riforme pragmatiche senza riaddormentarsi per altri 65 anni. Ammesso che il globo ci aspetti.

lunedì 18 giugno 2012

radici

L'orgoglio per le proprie radici,
   e per quelle di tutti,
è inversamente proporzionale
   a quello per i loro frutti

domenica 10 giugno 2012

lavoro e schiavitù - apologia di marx

A me, che marxista non sono mai stato, dispiace che nel 1989 si sia buttato, insieme al muro di Berlino e al marxismo-leninismo, anche quel tanto di valido che ancora dobbiamo a Marx. Mentre noto nei postcomunisti una resistenza nostalgica all'abbandono delle parti caduche dell'opera di Marx (la sua teoria del valore e del plusvalore, pilastri dell'anticapitalismo; il suo storicismo "scientifico"; le profezie avventate della sua filosofia "oracolare": tutte cose smentite dalla storia), non vedo in loro alcun interesse per il contributo che i suoi studi economici hanno dato alla conoscenza tout-court, né per quell'afflato umanistico che lo spinse a porre come fine ultimo del comunismo la liberazione dalla schiavitù e dall'alienazione del lavoro salariato, e che gli valse l'omaggio del più rigoroso filosofo anticomunista del '900, quel Karl R. Popper de "La società aperta e i suoi nemici".
Vorrei che qualcuno mi spiegasse, ad esempio, perché nessun comunista (ne esistono ancora, di sedicenti tali) o postcomunista o filosindacalista di oggi ricordi alle "masse" che il lavoro dipendente è la schiavitù esistenziale a cui il capitale le condanna ma da cui devono liberarsi, come recita la seguente dichiarazione:

     Invece della parola d'ordine conservatrice "Un equo salario per un'equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario "Soppressione del sistema di lavoro salariato"
da Karl Marx - Salario, prezzo e profitto
trad. di Palmiro Togliatti - Editori Riuniti 1961

Anche se penso che la complessità raggiunta dalla società globale non consenta oggi di ritenere realistica una simile rivoluzione a quel livello, so per esperienza di vita che ciò è realizzabile a livello individuale: è possibile cioè ottenere, proprio grazie alle potenzialità offerte dall'economia capitalista e dalla conoscenza disponibile, psicologia compresa, la riappropriazione da parte di ogni individuo disposto a pagarne il prezzo, di quella dimensione del lavoro come gioco e autorealizzazione, al pari della conoscenza, dell'amore e dell'arte.
E trovo esilarante che un anticomunista-non-anticapitalista come me abbia sfruttato un lavoro da dipendente di soli sei anni per poi vivere un'intera vita a fare solo ciò che gli piaceva, compresa l'utopia dei due cuori e una capanna, mentre quasi tutti i miei coetanei, genericamente o convintamente anticapitalisti (atteggiamento generalizzato, nella Roma dell'impiego pubblico) hanno passato la loro vita a maledire il lavoro alienante a cui sono stati costretti dall'odiato capitalismo e dalla sua arma letale: il credito.
Io avrei potuto essere il comandante di una superpetroliera a 28 anni; ho preferito fare il precario a vita, il collaudatore d'auto, il volontario dei diritti civili, il velista, il sub, il pupazzaro in TV; e per quasi trent'anni vestirmi, contadino, con i vestiti smessi dei miei amici, cosa che ancora faccio, con orgoglio anticonsumista, da pensionato.
Ma al capitalismo ed al suo strumento principe, cioè il credito in cambio della vita, ho sempre mostrato il mio dito medio rivolto in alto. Buffo, no?   http://rottamatoio.blogspot.it/2012/01/estetica-1-la-piu-grande-poverta.html