CAP. I - ETICA E POLITICA
UN APPROCCIO UMANISTICO
ETICA
Devo a Joseph
Ratzinger assurto al soglio pontificio ed alla sua campagna contro il
relativismo etico il mio bisogno di approfondimento del tema. E, ironia della
sorte, devo a Rocco Buttiglione la prima definizione esatta del relativismo
etico, che mi fece capire che io non ero affatto relativista e che la cultura
dei laici è oggi molto debole in campo etico.
In realtà
dalle parole di Ratzinger (ma si può dire “della chiesa cattolica” almeno quando
a parlare è il papa?) si capiscono solo due cose: primo, che il relativismo
etico è più pericoloso del fondamentalismo religioso; secondo, che l’unica
etica valida la possiede solo chi possiede la Verità, cioè la chiesa cattolica.
Devo invece a
Erich Fromm la migliore classificazione dell’etica. Nel suo “Dalla parte
dell’Uomo” fa chiarezza in materia elencandone quattro tipi:
1 – Etica assoluta: deriva dal potere
onnisciente di un’autorità superore; le sue proposizioni etiche sono
indiscutibilmente ed eternamente vere e non consentono revisioni. Dai suoi
sostenitori è ritenuta oggettiva e valida sempre ed ovunque. E’ la più
inaccettabile dal punto di vista teorico, in quanto presuppone l’esistenza di
un’infallibilità che cozza contro la teoria della conoscenza evolutiva a cui da
secoli è pervenuta la ricerca filosofica e scientifica. Tuttavia è quella
preferita dalla maggioranza del genere umano più assetato di certezza che di
verità.
2 – Etica relativa: sostiene che ogni individuo (come anche ogni società)
possiede o si sceglie un suo sistema di valori che non può essere contestato
dall’esterno. E’ un’etica soggettiva che non consente confronti con altri
sistemi di valori, tutti egualmente validi. E’ la più inaccettabile dal punto
di vista pratico: mettendo sullo stesso piano l’etica di Albert Schweitzer e
quella di Osama Bin Laden distrugge alla radice ogni possibilità di dialogo in
un genere di animale che è sociale per definizione, quello umano.
3 – Etica universale: norme di comportamento il
cui scopo è la crescita e il dispiegamento delle potenzialità umane come
individuate dalla conoscenza. E’ oggettiva ma soggetta a revisioni nel tempo
dettate dall’aggiornamento della conoscenza. E’ l’unica teoricamente valida in
quanto basata sulla teoria della conoscenza scientifica, e perciò evolutiva, ma
per trovare applicazione a livello sociale ha bisogno di convenzioni, a cui si
oppongono masse e regimi ancorati alla teoria della conoscenza del senso
comune. Va perciò considerata come un obiettivo da raggiungere.
4 – Etica socialmente immanente: norme di
comportamento che sono necessarie per il
funzionamento e la sopravvivenza di ogni singola società. Comprende anche una
piccola o grande parte di norme dell’etica universale più altre legate a
tradizioni locali. E’ considerata contingente, in fase di transizione verso la
dimensione universale. Ha un sistema di valori contestabile sia dall’interno
che dall’esterno ed è perciò modificabile ed evolutiva.
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POLITICA
Trovo che le
quattro forme di etica classificate da Fromm connotino, o perfino generino,
quattro regimi politici e le quattro pratiche politiche che ne conseguono.
Provo a classificarli:
1 – Dittatura: un’autorità superiore, personale
ma più spesso oligarchica, impone norme indiscutibili a presunta tutela dei
sudditi, che si astengono dall’intervenire nelle decisioni pubbliche. A volte
sfrutta il nome di democrazia permettendo elezioni pilotate ma escludendo
istituzioni liberali. Può essere cambiata solo con la forza. Decisamente la più
diffusa nel corso della storia.
2 – Anarchia: puramente astratta, presuppone la
capacità di tutti di autogestire i rapporti con altri individui o altre società
senza bisogno di alcuna convenzione o autorità. Esercita grande fascino
soprattutto sui giovani, ma nei rari tentativi di applicazione ha sempre avuto
esistenza breve ed ha aperto la strada all’avvento di dittature.
3 – Liberaldemocrazia: istituzioni democratiche
(bilanciate da istituzioni liberali non elettive) a garanzia di norme di comportamento per il libero
manifestarsi delle potenzialità umane, volte ad evitare che sorgano conflitti
tra cittadini che godono degli stessi diritti. La liberaldemocrazia pura va
considerata come un obiettivo a cui tendere.
4 – Democrazia reale: istituzioni liberaldemocratiche
che dettano e modificano norme di comportamento che sono un compromesso tra
quelle idealmente suggerite dalla conoscenza e quelle tramandate dal senso
comune. E’ il regime delle società più evolute ma con differenze notevoli tra
quelle in cui il senso comune è stato fortemente influenzato dalla conoscenza e
quelle più tradizionaliste.
CAP. II - DEMOCRAZIA
PURA & PRATICA
LIBERALDEMOCRAZIA
Essendo
queste riflessioni dedicate alla democrazia, scarto a priori ogni commento superfluo
su dittatura ed anarchia. Mi interessa invece molto il rapporto tra le
democrazie reali (ed in particolare quella italiana) e la liberaldemocrazia
pura.
Devo fare
solo qualche accenno al percorso storico che ha portato alla liberaldemocrazia.
Il liberalismo, che è il progenitore della democrazia moderna, nacque come
fenomeno protestante in Inghilterra e
Olanda a difesa della nuova classe borghese contro lo stato monarchico, era
tollerante e diffidava della plebe: non era democratico ma contrattualistico
(liberalismo evolutivo).
Fu imitato
dalle nazioni europee continentali sulla spinta della rivoluzione francese, con
tendenza ad affidare allo stato, possibilmente repubblicano, la promozione e la
tutela dei diritti (liberalismo costruttivistico). Solo con la creazione di
contropoteri indipendenti - democratici e non – come la costituzione e la
magistratura, il liberalismo permise la nascita della democrazia moderna.
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DEMOCRAZIA REALE
Sono
dell’opinione che con l’espandersi del suffragio popolare la presenza di
partiti liberali divenne superflua, essendo tutti i partiti
(conservatori o progressisti) tenuti per Costituzione ad essere liberali; il
loro permanere sulla scena politica ebbe l’involontario esito di indebolire la
comprensione di tale elementare obbligo. Ne conseguì il declino spontaneo dei
partiti liberali e l’affermarsi, soprattutto fuori dell’area anglosassone, di
partiti “popolari” che avevano radici spesso illiberali, che affondavano in tradizioni
dogmatico-religiose o giacobine.
Alcune nazioni
europee videro la loro fragile democrazia travolta e sostituita per periodi più
o meno lunghi dalla dittatura. Fu il caso dell’Italia, che voglio prendere come
campione di democrazia reale da analizzare.
CAP. III - IL CASO ITALIA:
DALLA LIBERALDEMOCRAZIA ALLA PARTITOCRAZIA
LA COSTITUZIONE SCRITTA
L’Italia
politica di oggi nasce con la caduta della dittatura fascista e della
monarchia. Con l’indizione delle elezioni per l’assemblea costituente
repubblicana si riprendeva il cammino interrotto nel ’22. Il personale politico
democratico con qualche esperienza era tutto di formazione prefascista e perciò
ancora intriso di cultura liberale, come pure molti dei politici più
giovani, spesso loro allievi, formatisi nella clandestinità o nella diaspora
antifascista. Non mancavano però, tra gli eletti alla costituente, esponenti di
“culture” sociali che attraverso una critica radicale al mondo liberale
prefascista andavano perdendo ogni connotato liberale.
Ne scaturì
una dignitosa Costituzione di compromesso che pur recependo i fondamenti
classici del liberalismo risulta minata da elementi estranei alla tradizione
liberale, come le molte petizioni di principio, a cominciare dall’ Art.1, con
quell’ambiguo “Repubblica Democratica fondata sul lavoro”, che finirà per
essere interpretato come diritto al posto di lavoro dipendente.
Tuttavia
l’impianto generale, che con i suoi 139 articoli si connotava come tipico del
liberalismo continentale, con la sua rigidità revisionale sembrava scoraggiare
derive illiberali e sufficiente a permettere uno sviluppo liberaldemocratico
della società italiana.
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LA COSTITUZIONE MATERIALE
Fu subito
chiaro che i partiti di massa del CLN non erano disposti a lasciarsi ingabbiare
nello schema liberale della neonata costituzione. All’inizio agirono per
omissione, rinviando per anni, per decenni, o per sempre l’attuazione dei suoi
dettami: basti pensare che le leggi di attuazione delle regioni (art.114) e del
referendum popolare (art.75) non videro la luce fino al 1970, la regolamentazione
dello sciopero (art.40) è del 1990 ma solo per i servizi pubblici, quella delle
organizzazioni sindacali è ancora inattuata (art.39). Questa vacatio legis
iniziale fu la base su cui si innestò poi una vera e propria revisione
costituzionale non scritta che portò all’attuale “costituzione materiale”.
Già nel 1953
la legge attuativa della Corte Costituzionale aveva debordato dai suoi compiti
aggiungendo il giudizio di ammissibilità dei referendum agli unici tre compiti
previsti (art.134). La Corte, la cui entrata in funzione non avvenne che nel
1956, fece un buon lavoro di defascistizzazione della legislazione fino a
quando, in seguito all’approvazione del divorzio (1970) e alla successiva
richiesta di referendum da parte dei clericali, i partiti capirono di averne
sottovalutato l’importanza. Da quel momento cominciò una gara a scegliere con
cura i membri da inserire nella Corte, nel senso dell’affidabilità ideologica,
e da allora le sentenze furono sempre meno attente alla lettera della Costituzione
e sempre più alle esigenze dell’unità nazionale ex-antifascista.
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LA PARTITOCRAZIA
Tutto ciò non
sarebbe stato possibile senza una distorsione anticostituzionale di partenza.
Nonostante l’estrema chiarezza dell’unica citazione dei partiti (art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti per
concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Punto!!!)
i partiti antifascisti non dismisero mai la struttura che si erano data nella
clandestinità e poi nella resistenza, approfittando anzi della riconquistata
libertà d’azione per assumere una valenza istituzionale se non parastatale. E
si guardarono bene dall’adeguarsi alla neonata Costituzione. Fu così che un
banale strumento associativo assurse a pilastro di regime.
Prima vittima
fu il Parlamento, ridotto a esecutore delle direttive delle segreterie
partitiche. Eretto dalla Costituzione a pilastro della repubblica democratica in
rappresentanza del popolo sovrano, doveva essere composto da persone coscienti
di dovere, una volta elette, obbedire all’art. 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato”), quasi una dichiarazione di incompatibilità
con l’appartenenza partitica.
Quando nel
1948 - complice lo scoppio della guerra fredda - iniziò la prima legislatura,
fu subito chiaro che non sarebbe stato così: partiti a struttura clientelare e
partiti a struttura leninista, finalmente liberi da pastoie liberaliste,
assunsero definitivamente la forma di partito-chiesa, con le sue parrocchie, le
sue sezioni, le sue cooptazioni di fideisti, i suoi giuramenti di fedeltà e
conseguenti tribunali dell’inquisizione (detti probiviri), in cui vige l’esame
di ammissione perché la responsabilità non è individuale ma l’indegnità di ogni
iscritto infanga tutta la comunità di santi, ogni distinguo è un indizio di
eresia, ogni dissenso un tradimento. A partire dai parlamentari, vincolati alla
disciplina di partito, of course. Il
finanziamento pubblico sancì l’avvenuta statalizzazione della politica.
Quasi tutta
quella che si può chiamare la storia partitica della repubblica ne è una
conseguenza inevitabile. Mi limito - da ex radicale - a citare due esempi dell’intreccio
perverso tra politica, Corte Costituzionale ed informazione a cui ha portato la
partitocrazia:
A) la
trasformazione da parte della Corte del diritto dei cittadini di
chiedere referendum per “….l’abrogazione,
totale o parziale, di una legge…” (art.75), nel diritto per la
Corte stessa di respingere o ritagliare le richieste referendarie a proprio
giudizio per evitare una vacatio legis,
caso non menzionato nella Costituzione scritta.
B) la trasformazione del finanziamento pubblico ai
partiti, abrogato dal referendum del 1993 con il 90.3% dei voti, in rimborso
elettorale: consenziente la Corte. In meno di 20 anni il suo ammontare è più
che decuplicato, sempre in nome del principio sensocomunista del “sennò i partiti sono costretti a rubare”.
Tra gli
emendamenti alla manovra finanziaria in corso (settembre 2011) c’era
l’abolizione di tale finanziamento: votato solo dai radicali, respinto da tutti
gli altri con l’astensione dei dipietristi come pure le esenzioni fiscali ecclesiastiche;
ma di queste almeno era passata l’informazione su giornali e TV, dell’altro
niente! A riprova di quanto diceva Pannella nel ’79: ormai la partitocrazia è
più forte del Vaticano.
Ma l’effetto
di gran lunga più grave è la scomparsa dell’etica istituzionale, sostituita dal
machiavellismo più sfacciato. Se fai notare che i partiti-compari assumono e
modificano con riflessi pavloviani le loro posizioni su ogni materia in base
all’interesse di partito – e menandone gran vanto quando per puro caso coincide
con quello generale – ti senti rispondere che se non fai così “allora non sei
un politico!” E infatti non ti votano. Un disastro morale per il popolo
italiano, secondo solo a quello prodotto dalla chiesa cattolica nei secoli
precedenti, e come sempre ai disastri morali seguono i disastri sociali.
CAP. IV - LE RADICI CULTURALI
TOLOMEO VS COPERNICO
Devo a Karl
R. Popper l’individuazione di due teorie generali della conoscenza, nonché la
dimostrazione che la diffusione del loro uso è inversamente proporzionale alla
loro validità. Provo ad esporle.
TEORIA DELLA CONOSCENZA FILOSOFICO-SCIENTIFICA
Popper
spiegò come nel campo della conoscenza non siamo condannati a brancolare nel
buio delle non-verità soggettive ma abbiamo sempre a disposizione quelle teorie
sulla verità oggettiva, parziali e provvisorie, che hanno superato il maggior
numero di controlli, i quali non sono mai “verificazioni”
ma solo tentativi di confutazione cioè di “falsificazione”.
Pur restando fedele a Socrate (“so di non
sapere”) Popper sa ciò che è falso: il vero può perfino essere raggiunto,
ma la sua certezza no, poiché basterà una sola confutazione nel corso del tempo
per invalidarlo. Dobbiamo accontentarci di preferire quelle conoscenze che
hanno superato il maggior numero di controlli. E sempre disposti ad evolvere,
perché la ricerca della conoscenza è senza fine.
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TEORIA DELLA CONOSCENZA DEL SENSO COMUNE
Contrariamente
a quanto affermano i seguaci della teoria del pensiero unico, la teoria della
conoscenza scientifica (variamente applicabile anche alle scienze umane) è
conosciuta da un’esigua minoranza del genere umano, e solo parzialmente
applicata anche da costoro. La vera teoria della conoscenza del genere umano è
il senso comune, nelle infinite varianti sociali e geografiche, tanto poco
evolutive da sembrare impermeabili ad ogni cambiamento.
La sua base è
sana, è il DNA, che costituisce la conoscenza
a priori di ogni essere umano, e che è il sedimento di apprendimenti per “errore e correzione” depositatosi nel corso dell’evoluzione biologica. Ma tale
sedimento condiziona fortemente la formazione della successiva conoscenza a posteriori di tipo
ambientale, costretta dall’apprendimento per via orale-imitativa a restare
indietro di molti secoli ai cambiamenti sociali prodotti dalla conoscenza
scientifica.
Conseguenza inevitabile della rigidità del
senso comune è che si porta dietro, insieme al buonsenso di tradizioni,
credenze e norme di comportamento ancora valide, un catastrofico fardello di
luoghi comuni e falsità rese ormai tali dall’evoluzione ambientale. E’
strutturalmente tolemaico. Come diceva James Brice, “Per la maggior parte della gente, niente crea più problemi dello sforzo di pensare”.
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EFFETTI POLITICO-SOCIALI
Tutti i grandi cambiamenti
sociali ed ambientali del globo sono generati dalle applicazioni della teoria
della conoscenza filosofico-scientifica ma subiti passivamente dalle grandi
masse guidate dalla teoria della conoscenza del senso comune.
Ne nasce un senso di estraneità tra due
mondi, quello della vera classe dirigente (più alcuni milioni di persone in
grado di capirne l’operato) e quello dei miliardi di persone, non importa se
con funzioni dirigenti o no, incapaci di abbracciare i meccanismi di una
società complessa. Ciò non costituisce almeno apparentemente un problema in
società a regime dittatoriale, ma dovrebbe preoccupare molto chi afferma di
preferire la democrazia, basata sul consenso popolare.
La soluzione classica del problema fu il
binomio liberalismo + democrazia, che
trasposta a livello culturale equivale a conoscenza
+ cultura nazionalpopolare, in difficile equilibrio.
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CULTURA NAZIONALPOPOLARE
Per tornare all’Italia, per cause storiche
che non sto a ricordare, quando nel XIX secolo ci si avviò alla sua
unificazione essa sembrava priva di una cultura popolare unificante, ma disponeva
piuttosto di una miriade di culture locali e subnazionali. Una sola era la
tradizione presente ovunque: la cultura controriformista della chiesa cattolica,
un vero delirio gesuitico innestato sul preesistente machiavellismo medievale.
Questa tradizione, che connota tuttora la società italiana grazie al potere
imbalsamante del senso comune, divenne la base della cultura nazional popolare italiana,
e con essa i politici della nuova nazione si trovarono ben presto a fare i
conti.
Già prima dell’avvento del suffragio
universale maschile (1919) i politici, quasi tutti d’ispirazione liberale,
oltre a concessioni volte a smorzare l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche,
avevano preso una deriva populista per accaparrarsi i voti di una borghesia che
non brillava certo per etica anglosassone, mentre la chiesa varava in funzione
antiliberale la sua politica sociale sconosciuta allo stato pontificio.
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L’ERRORE DI GRAMSCI
La polemica di Antonio Gramsci contro
l’intellettualità liberale italiana risente dell’impostazione “francescana” di
quella cultura nazionalpopolare di cui negava l’esistenza: evidentemente, e non
a torto ma con patente contraddizione, aveva del termine cultura un senso più
alto. A differenza dell’impostazione “utilitarista” (il “bene” di Bentham e
Stuart Mill) della cultura nazionalpopolare anglosassone, il francescanesimo è
il prodotto di una società tolemaica e deterministica che ignora la genesi
della ricchezza e nega il merito individuale; in linea con la tradizione
cattolica esalta la bontà come “virtù”, essendo la definizione del “bene”
demandata all’autorità fuori della quale non v’è salvezza (Chiesa? Partito?), verso
cui di conseguenza si ha il dovere di un’altra virtù: l’obbedienza.
Nella polemica antimanzoniana di Gramsci
affiora tutta l’estraneità della cultura nazionalpopolare all’etica per cui “il
medico pietoso fa la piaga puzzolente”. Per un moralista francescano la teoria
degli esiti inintenzionali di Adam Smith (moralista scozzese), per cui ha fatto
più bene al mondo un fabbro che per il proprio interesse ha inventato il telaio
meccanico di chi ha regalato il suo forziere alla plebe affamata, risulta
inaccettabile. Alle vittime piegate da due millenni di cattolicesimo le idee
liberali, copernicane ed evolutive, dovevano apparire incomprensibili e
malvagie, come spesso erano i catto-borghesi-liberali-per-interesse. Gramsci
immaginò di iniziare a costruire una cultura nazional popolare ma non si
accorse che ne esisteva già una (chiamiamola pure sottocultura) ad egemonia
cattolica (l’errore è sempre identificare cattolico con cristiano) e che con il
tramonto del liberalismo tale egemonia sarebbe diventata imbattibile, trasformando
la liberaldemocrazia in una pseudodemocrazia.
CAP. V - LA REPUBBLICA
CONTROSTORIA
LIBERALISMO ADDIO?
La resa finale fu la legge elettorale
proporzionale accoppiata al suffragio universale maschile: popolari e
socialisti stravinsero e la composizione del parlamento che ne scaturì spianò
la strada a Mussolini e al suo ventennio, passato il quale solo Sturzo ebbe
l’onestà di riconoscere l’errore diventando maggioritario e presidenzialista, a
differenza della maggioranza dei democristiani. I comunisti, rispolverando l’eretico
Gramsci in chiave machiavellista, inaugurarono l’antipolitica del “ciò che
giova al partito coincide con l’interesse generale”.
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LA REPUBBLICA DEI PARTITI
Togliatti, spacciando l’art.7 come applicazione
della teoria nazionalpopolare gramsciana,
gettò in realtà le basi per le fortune elettorali del PCI nei decenni avvenire,
sostituendo al francescanesimo di Gramsci il clericalismo dello Stato Vaticano
e rinunciando ad ogni evoluzione in senso laico del senso comune italico. La
sua spregiudicatezza tattica fu imitata da decine di partiti della prima e
della sedicente seconda repubblica, fino ai fasti odierni, in cui i
partiti-compari (complici su finanziamento pubblico, RAI pubblica,
municipalizzate, fondazioni bancarie, consigli d’amministrazione e via
crescendo) si contendono i voti a colpi di menzogne e di carognate rovesciando
le proprie posizioni appena passano da maggioranza a minoranza. Molto peggio
del trasformismo di quasi tutti i singoli parlamentari, giustamente sempre più
screditati.
Quando Berlinguer, ormai orfano del compromesso storico, inventò la “questione
morale” e fu chiaro che intendeva solo la corruzione pecuniaria non credevo alle
mie orecchie: non un accenno alla corruzione peggiore, quella della menzogna, dell'omissione, della doppia verità che avrebbe coinvolto il suo partito; ma
neanche al furto legalizzato, quella prassi che, finanziaria dopo finanziaria,
con i suoi emendamenti a favore di cooperative bianche e rosse, sindacati, enti
locali lottizzati, corporazioni di tutti i tipi portò all’attuale livello il
debito pubblico. Come nel 1967 documentò Giorgio Galli nel suo “Il bipartitismo
imperfetto”, subito corretto da Pannella in “monopartitismo imperfetto”, l’88%
delle leggi dal 1948 al 1966 furono votate insieme da DC e PCI, e sicuramente
la percentuale aumentò nei decenni successivi.
Per inciso, faccio notare che per il senso
comune, che coniuga individuo con egoismo, associazione con altruismo, e comunità
nazionale con astrazione, chi ruba per il partito è moralmente migliore di chi
ruba per sé. Ma a lume di ragione è moralmente peggiore chi ruba per il partito,
perché oltre a impoverire i suoi concittadini rottama la democrazia. Infinitamente
peggiore.
A causa della teoria sensocomunista del fine
che giustifica i mezzi (spacciata per realismo), si ebbero due esiti
inintenzionali: di gran lunga il più grave fu la strage di moralità e di
legalità, che continuerà a lungo a fare strage di persone; poi il saccheggio
dello stato (debito pubblico più corruzione), cioè lo scippo del futuro delle
generazioni a venire, quelle di oggi, ignare e ignoranti, che si indignano
sempre e solo con l’ultimo governo.
Chi ricorda con quali metodi quella
rispettabile, austera signora di nome Nilde Jotti, da presidente della camera,
stroncò l’ostruzionismo dei radicali alla finanziaria del 1981? Volevano solo che
gli italiani sapessero che strada stava imboccando il debito pubblico; dai
media gli italiani di allora furono informati di un gruppo di esaltati che paralizzava
le istituzioni democratiche. Chissà se un giorno uno storico andrà a scavare in
cerca dei padri dell’attuale catastrofe, berlusconismo compreso.
Oggi i sensocomunisti cadono dalle nuvole e
si indignano, ma continuano diabolicamente a pensare che in politica chi ha
ragione con troppo (?!) anticipo ha torto. Come sull’esilio per Saddam, per la richiesta
che Jugoslavia, Israele e Turchia fossero integrate in un’Europa federale. Un paese senza memoria è un paese senza
futuro (L.Sciascia).
CAP. VI - A FUTURA MEMORIA
SE LA MEMORIA HA UN FUTURO
DEMOCRAZIA ADDIO?
Finora la
democrazia grazie ai sistemi politici anglosassoni, ma specialmente a quello
americano, è riuscita a restare il peggior sistema di governo ad eccezione di tutti
gli altri, ma quanto potrà resistere all’assalto sempre più evidente del
populismo? E la Cina è vicina, con la sua pretesa storica di superiorità
culturale tipica delle società chiuse; nel caso migliore (quello peggiore
essendo legge e ordine alla cinese)
l’Asia deve ripercorrere tutte le convulsioni sociali che hanno sempre
accompagnato lo sviluppo industriale e non credo che il pianeta sia in grado di
sopportarle.
Dichiaro
perciò tutto il mio pessimismo per un futuro dell’umanità privata dell’
umanesimo; ma se proprio mi devo esporre ad indicare una soluzione al problema
dirò che sono quasi certo – nei limiti ristretti delle “certezze” concesse
all’uomo – che non può essere altro che invertire la rotta per riportare la
democrazia e il suo principe-popolo-sovrano al rispetto delle norme di
comportamento, cioè all’etica. Purtroppo non credo che sarà possibile senza passare
per una crisi sociale devastante. Politica, economia, arte ed ogni attività umana possono rivendicare una propria autonomia (ma non indipendenza) dall'etica, la democrazia no: ne muore.
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CHE FARE ?: SOLO UN ACCENNO
Bisognerebbe
innanzitutto dotarsi di strutture politiche che proteggano gli eletti dal
ricatto continuo delle oligarchie di partito e delle masse politicamente analfabete
e sottoproletarizzate, rese isteriche dall’ignoranza che gli fa vivere la
condizione di minoranza come mancanza di democrazia. Fallito il generoso tentativo
di Marx di creare coscienza di classe per fare l’uomo nuovo, e quello
altrettanto generoso ma più ingenuo di Gramsci di costruire una cultura
nazionalpopolare decente, si dovrebbe tornare a ricostruire un equilibrio tra
diritti e doveri, con tutto il gradualismo del caso ma senza mai deviare
neanche di un millimetro da quella direzione.
Una
costituzione liberale dovrebbe limitarsi a garantire le “libertà da” per consentire ai cittadini di poter operare per
guadagnarsi con la sua fatica le “libertà di”, senza
confondere i due concetti. Come diceva sarcasticamente Tocqueville agli
estremisti dei diritti universali, “...se vogliamo metterci tutto, cosa resta
se non liberare l’uomo anche dall’affanno del respirare e dalla fatica del
vivere?”.
Ci sono due
modi di essere sudditi: pensare di avere solo doveri e pensare di avere solo
diritti.
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COSTITUZIONALIZZARE I PARTITI
Tra le varie
modifiche costituzionali dettate dall’esperienza, la prima e di gran lunga la
più importante dovrebbe essere una norma che riconosca ai partiti una funzione maggiore
ma più essenziale, con l’indicazione del modello a cui improntarsi, i cui costi
non siano incompatibili con l’onestà e il rispetto della legge, la cui
violazione deve prevedere le stesse
sanzioni applicate ad altre forme di attentato alle istituzioni repubblicane. Norme
che incentivino il partito-strumento rispetto al partito-chiesa. Per spiegare
cos’è un partito-strumento ci vuole un testo apposito, (vedi:
http://rottamatoio.blogspot.it/2012/02/politica-4-il-partito-aperto-e-i-suoi.html ); per il partito-chiesa basta guardarsi attorno.
La legge
elettorale dovrebbe rispondere all’esigenza di porre l’elettore di fronte a
scelte semplici e non ideologiche: un candidato contro un altro candidato, in
modo che di loro sia possibile sapere tutto (presente e passato, idee e
programmi) anche nel breve spazio di una campagna elettorale e che poi sia
possibile controllare e giudicare. Perfino al sud questo sistema ha già dimostrato
di funzionare. Un mafioso o tanti mafiosi possono pure riuscire a farsi
eleggere, ma la sfida va accettata con la fiducia che il tempo è galantuomo e dare
agli elettori tutto il tempo per imparare che la disonestà non rende. L’errore
è un grande maestro e bisogna lasciarlo lavorare invece di rafforzare con la
nostra isteria l’errante nel suo diabolico perseverare.
Va anche
esplicitato meglio che il voto è un diritto e non un dovere, e che per goderne
si deve avere il diritto giuridico di essere informati ma anche il dovere
morale di tenersi informati, altrimenti si ha il dovere morale, anche se
non giuridico, dell’astensione.
Più che il pareggio
di bilancio metterei in costituzione, per rispetto alle generazioni future,
il tetto al debito pubblico, che dovrebbe restare normalmente al 50% per non
rischiare di superare il 70% in caso di forte recessione:. Non aggiungo altro,
ho voluto solo dare un’idea di come interrompere un circolo vizioso e aprirne
uno virtuoso.
CONCLUSIONE
Tutto ciò è
pura utopia: oggi nessun partito, nessun governo, pochi elettori sono disposti
a riforme del genere. Affinché esca dall’utopia e diventi qualcosa di
proponibile in direzione del riavvicinamento tra etica e democrazia c’è bisogno
di due condizioni: una molto probabile ed una molto improbabile ma possibile.
La molto probabile è una catastrofe sociale, economica, bellica o ambientale paragonabile alla seconda guerra
mondiale. La molto improbabile è che i superstiti abbiano imparato qualcosa.
Eppure io non sono un pessimista, ma solo un ottimista che si è informato. Un lettore razionale mi chiederà: “Ma se veramente
la pensi così perché continui ad occuparti di politica?”. Premettendo che
la politica ormai la studio ma non la faccio più, gli devo una risposta altrettanto
seria:
“Perché mi piace
la conoscenza, cioè la vera cultura. E perciò, come Jared Diamond e Jane
Goodall, mi diverto da matti a studiare ed osservare l’attività del terzo
scimpanzé”. Homo Sapiens o piuttosto Pan Demens?
Grazie dell’attenzione, torno a giocare con la mia capretta Karma, è simpatica e fa meno danni degli scimpanzé (per quanto ci provi).
Grazie dell’attenzione, torno a giocare con la mia capretta Karma, è simpatica e fa meno danni degli scimpanzé (per quanto ci provi).