lunedì 26 dicembre 2011

democrazia senza etica?


CAP. I - ETICA E POLITICA
UN APPROCCIO UMANISTICO
ETICA
   Devo a Joseph Ratzinger assurto al soglio pontificio ed alla sua campagna contro il relativismo etico il mio bisogno di approfondimento del tema. E, ironia della sorte, devo a Rocco Buttiglione la prima definizione esatta del relativismo etico, che mi fece capire che io non ero affatto relativista e che la cultura dei laici è oggi molto debole in campo etico.
   In realtà dalle parole di Ratzinger (ma si può dire “della chiesa cattolica” almeno quando a parlare è il papa?) si capiscono solo due cose: primo, che il relativismo etico è più pericoloso del fondamentalismo religioso; secondo, che l’unica etica valida la possiede solo chi possiede la Verità, cioè la chiesa cattolica.

   Devo invece a Erich Fromm la migliore classificazione dell’etica. Nel suo “Dalla parte dell’Uomo” fa chiarezza in materia elencandone quattro tipi:

1 – Etica assoluta: deriva dal potere onnisciente di un’autorità superore; le sue proposizioni etiche sono indiscutibilmente ed eternamente vere e non consentono revisioni. Dai suoi sostenitori è ritenuta oggettiva e valida sempre ed ovunque. E’ la più inaccettabile dal punto di vista teorico, in quanto presuppone l’esistenza di un’infallibilità che cozza contro la teoria della conoscenza evolutiva a cui da secoli è pervenuta la ricerca filosofica e scientifica. Tuttavia è quella preferita dalla maggioranza del genere umano più assetato di certezza che di verità.

2 – Etica relativa:  sostiene che ogni individuo (come anche ogni società) possiede o si sceglie un suo sistema di valori che non può essere contestato dall’esterno. E’ un’etica soggettiva che non consente confronti con altri sistemi di valori, tutti egualmente validi. E’ la più inaccettabile dal punto di vista pratico: mettendo sullo stesso piano l’etica di Albert Schweitzer e quella di Osama Bin Laden distrugge alla radice ogni possibilità di dialogo in un genere di animale che è sociale per definizione, quello umano.

3 – Etica universale: norme di comportamento il cui scopo è la crescita e il dispiegamento delle potenzialità umane come individuate dalla conoscenza. E’ oggettiva ma soggetta a revisioni nel tempo dettate dall’aggiornamento della conoscenza. E’ l’unica teoricamente valida in quanto basata sulla teoria della conoscenza scientifica, e perciò evolutiva, ma per trovare applicazione a livello sociale ha bisogno di convenzioni, a cui si oppongono masse e regimi ancorati alla teoria della conoscenza del senso comune. Va perciò considerata come un obiettivo da raggiungere.

4 – Etica socialmente immanente: norme di comportamento che sono necessarie per  il funzionamento e la sopravvivenza di ogni singola società. Comprende anche una piccola o grande parte di norme dell’etica universale più altre legate a tradizioni locali. E’ considerata contingente, in fase di transizione verso la dimensione universale. Ha un sistema di valori contestabile sia dall’interno che dall’esterno ed è perciò modificabile ed evolutiva.

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POLITICA
   Trovo che le quattro forme di etica classificate da Fromm connotino, o perfino generino, quattro regimi politici e le quattro pratiche politiche che ne conseguono. Provo a classificarli:

1 – Dittatura: un’autorità superiore, personale ma più spesso oligarchica, impone norme indiscutibili a presunta tutela dei sudditi, che si astengono dall’intervenire nelle decisioni pubbliche. A volte sfrutta il nome di democrazia permettendo elezioni pilotate ma escludendo istituzioni liberali. Può essere cambiata solo con la forza. Decisamente la più diffusa nel corso della storia.

2 – Anarchia: puramente astratta, presuppone la capacità di tutti di autogestire i rapporti con altri individui o altre società senza bisogno di alcuna convenzione o autorità. Esercita grande fascino soprattutto sui giovani, ma nei rari tentativi di applicazione ha sempre avuto esistenza breve ed ha aperto la strada all’avvento di dittature.

3 – Liberaldemocrazia: istituzioni democratiche (bilanciate da istituzioni liberali non elettive) a garanzia di  norme di comportamento per il libero manifestarsi delle potenzialità umane, volte ad evitare che sorgano conflitti tra cittadini che godono degli stessi diritti. La liberaldemocrazia pura va considerata come un obiettivo a cui tendere.

4 – Democrazia reale: istituzioni liberaldemocratiche che dettano e modificano norme di comportamento che sono un compromesso tra quelle idealmente suggerite dalla conoscenza e quelle tramandate dal senso comune. E’ il regime delle società più evolute ma con differenze notevoli tra quelle in cui il senso comune è stato fortemente influenzato dalla conoscenza e quelle più tradizionaliste.

CAP. II - DEMOCRAZIA
PURA & PRATICA
LIBERALDEMOCRAZIA
   Essendo queste riflessioni dedicate alla democrazia, scarto a priori ogni commento superfluo su dittatura ed anarchia. Mi interessa invece molto il rapporto tra le democrazie reali (ed in particolare quella italiana) e la liberaldemocrazia pura.
   Devo fare solo qualche accenno al percorso storico che ha portato alla liberaldemocrazia. Il liberalismo, che è il progenitore della democrazia moderna, nacque come fenomeno protestante  in Inghilterra e Olanda a difesa della nuova classe borghese contro lo stato monarchico, era tollerante e diffidava della plebe: non era democratico ma contrattualistico (liberalismo evolutivo).
   Fu imitato dalle nazioni europee continentali sulla spinta della rivoluzione francese, con tendenza ad affidare allo stato, possibilmente repubblicano, la promozione e la tutela dei diritti (liberalismo costruttivistico). Solo con la creazione di contropoteri indipendenti - democratici e non – come la costituzione e la magistratura, il liberalismo permise la nascita della democrazia moderna.

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DEMOCRAZIA REALE
   Sono dell’opinione che con l’espandersi del suffragio popolare la presenza di partiti liberali divenne superflua, essendo tutti i partiti (conservatori o progressisti) tenuti per Costituzione ad essere liberali; il loro permanere sulla scena politica ebbe l’involontario esito di indebolire la comprensione di tale elementare obbligo. Ne conseguì il declino spontaneo dei partiti liberali e l’affermarsi, soprattutto fuori dell’area anglosassone, di partiti “popolari” che avevano radici spesso illiberali, che affondavano in tradizioni dogmatico-religiose o giacobine.
    Alcune nazioni europee videro la loro fragile democrazia travolta e sostituita per periodi più o meno lunghi dalla dittatura. Fu il caso dell’Italia, che voglio prendere come campione di democrazia reale da analizzare.

CAP. III - IL CASO ITALIA:
DALLA LIBERALDEMOCRAZIA ALLA PARTITOCRAZIA

LA COSTITUZIONE SCRITTA
   L’Italia politica di oggi nasce con la caduta della dittatura fascista e della monarchia. Con l’indizione delle elezioni per l’assemblea costituente repubblicana si riprendeva il cammino interrotto nel ’22. Il personale politico democratico con qualche esperienza era tutto di formazione prefascista e perciò ancora intriso di cultura liberale, come pure molti dei politici più giovani, spesso loro allievi, formatisi nella clandestinità o nella diaspora antifascista. Non mancavano però, tra gli eletti alla costituente, esponenti di “culture” sociali che attraverso una critica radicale al mondo liberale prefascista andavano perdendo ogni connotato liberale.
   Ne scaturì una dignitosa Costituzione di compromesso che pur recependo i fondamenti classici del liberalismo risulta minata da elementi estranei alla tradizione liberale, come le molte petizioni di principio, a cominciare dall’ Art.1, con quell’ambiguo “Repubblica Democratica fondata sul lavoro”, che finirà per essere interpretato come diritto al posto di lavoro dipendente.
   Tuttavia l’impianto generale, che con i suoi 139 articoli si connotava come tipico del liberalismo continentale, con la sua rigidità revisionale sembrava scoraggiare derive illiberali e sufficiente a permettere uno sviluppo liberaldemocratico della società italiana.

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LA COSTITUZIONE MATERIALE
   Fu subito chiaro che i partiti di massa del CLN non erano disposti a lasciarsi ingabbiare nello schema liberale della neonata costituzione. All’inizio agirono per omissione, rinviando per anni, per decenni, o per sempre l’attuazione dei suoi dettami: basti pensare che le leggi di attuazione delle regioni (art.114) e del referendum popolare (art.75) non videro la luce fino al 1970, la regolamentazione dello sciopero (art.40) è del 1990 ma solo per i servizi pubblici, quella delle organizzazioni sindacali è ancora inattuata (art.39). Questa vacatio legis iniziale fu la base su cui si innestò poi una vera e propria revisione costituzionale non scritta che portò all’attuale “costituzione materiale”.
   Già nel 1953 la legge attuativa della Corte Costituzionale aveva debordato dai suoi compiti aggiungendo il giudizio di ammissibilità dei referendum agli unici tre compiti previsti (art.134). La Corte, la cui entrata in funzione non avvenne che nel 1956, fece un buon lavoro di defascistizzazione della legislazione fino a quando, in seguito all’approvazione del divorzio (1970) e alla successiva richiesta di referendum da parte dei clericali, i partiti capirono di averne sottovalutato l’importanza. Da quel momento cominciò una gara a scegliere con cura i membri da inserire nella Corte, nel senso dell’affidabilità ideologica, e da allora le sentenze furono sempre meno attente alla lettera della Costituzione e sempre più alle esigenze dell’unità nazionale ex-antifascista.
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LA PARTITOCRAZIA
   Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza una distorsione anticostituzionale di partenza. Nonostante l’estrema chiarezza dell’unica citazione dei partiti (art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Punto!!!) i partiti antifascisti non dismisero mai la struttura che si erano data nella clandestinità e poi nella resistenza, approfittando anzi della riconquistata libertà d’azione per assumere una valenza istituzionale se non parastatale. E si guardarono bene dall’adeguarsi alla neonata Costituzione. Fu così che un banale strumento associativo assurse a pilastro di regime.
   Prima vittima fu il Parlamento, ridotto a esecutore delle direttive delle segreterie partitiche. Eretto dalla Costituzione a pilastro  della repubblica democratica in rappresentanza del popolo sovrano, doveva essere composto da persone coscienti di dovere, una volta elette, obbedire all’art. 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”), quasi una dichiarazione di incompatibilità con l’appartenenza partitica.
   Quando nel 1948 - complice lo scoppio della guerra fredda - iniziò la prima legislatura, fu subito chiaro che non sarebbe stato così: partiti a struttura clientelare e partiti a struttura leninista, finalmente liberi da pastoie liberaliste, assunsero definitivamente la forma di partito-chiesa, con le sue parrocchie, le sue sezioni, le sue cooptazioni di fideisti, i suoi giuramenti di fedeltà e conseguenti tribunali dell’inquisizione (detti probiviri), in cui vige l’esame di ammissione perché la responsabilità non è individuale ma l’indegnità di ogni iscritto infanga tutta la comunità di santi, ogni distinguo è un indizio di eresia, ogni dissenso un tradimento. A partire dai parlamentari, vincolati alla disciplina di partito, of course. Il finanziamento pubblico sancì l’avvenuta statalizzazione della politica.
   Quasi tutta quella che si può chiamare la storia partitica della repubblica ne è una conseguenza inevitabile. Mi limito - da ex radicale - a citare due esempi dell’intreccio perverso tra politica, Corte Costituzionale ed informazione a cui ha portato la partitocrazia:
 A) la trasformazione da parte della Corte del diritto dei cittadini di chiedere referendum per “….l’abrogazione, totale o parziale, di una legge…” (art.75), nel diritto per la Corte stessa di respingere o ritagliare le richieste referendarie a proprio giudizio per evitare una vacatio legis, caso non menzionato nella Costituzione scritta.
B) la trasformazione del finanziamento pubblico ai partiti, abrogato dal referendum del 1993 con il 90.3% dei voti, in rimborso elettorale: consenziente la Corte. In meno di 20 anni il suo ammontare è più che decuplicato, sempre in nome del principio sensocomunista del “sennò i partiti sono costretti a rubare”.
   Tra gli emendamenti alla manovra finanziaria in corso (settembre 2011) c’era l’abolizione di tale finanziamento: votato solo dai radicali, respinto da tutti gli altri con l’astensione dei dipietristi come pure le esenzioni fiscali ecclesiastiche; ma di queste almeno era passata l’informazione su giornali e TV, dell’altro niente! A riprova di quanto diceva Pannella nel ’79: ormai la partitocrazia è più forte del Vaticano.
   Ma l’effetto di gran lunga più grave è la scomparsa dell’etica istituzionale, sostituita dal machiavellismo più sfacciato. Se fai notare che i partiti-compari assumono e modificano con riflessi pavloviani le loro posizioni su ogni materia in base all’interesse di partito – e menandone gran vanto quando per puro caso coincide con quello generale – ti senti rispondere che se non fai così “allora non sei un politico!” E infatti non ti votano. Un disastro morale per il popolo italiano, secondo solo a quello prodotto dalla chiesa cattolica nei secoli precedenti, e come sempre ai disastri morali seguono i disastri sociali.

CAP. IV - LE RADICI CULTURALI
TOLOMEO VS COPERNICO

   Devo a Karl R. Popper l’individuazione di due teorie generali della conoscenza, nonché la dimostrazione che la diffusione del loro uso è inversamente proporzionale alla loro validità. Provo ad esporle.

TEORIA DELLA CONOSCENZA FILOSOFICO-SCIENTIFICA
    Popper spiegò come nel campo della conoscenza non siamo condannati a brancolare nel buio delle non-verità soggettive ma abbiamo sempre a disposizione quelle teorie sulla verità oggettiva, parziali e provvisorie, che hanno superato il maggior numero di controlli, i quali non sono mai “verificazioni” ma solo tentativi di confutazione cioè di “falsificazione”. Pur restando fedele a Socrate (“so di non sapere”) Popper sa ciò che è falso: il vero può perfino essere raggiunto, ma la sua certezza no, poiché basterà una sola confutazione nel corso del tempo per invalidarlo. Dobbiamo accontentarci di preferire quelle conoscenze che hanno superato il maggior numero di controlli. E sempre disposti ad evolvere, perché la ricerca della conoscenza è senza fine.
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 TEORIA DELLA CONOSCENZA DEL SENSO COMUNE
Contrariamente a quanto affermano i seguaci della teoria del pensiero unico, la teoria della conoscenza scientifica (variamente applicabile anche alle scienze umane) è conosciuta da un’esigua minoranza del genere umano, e solo parzialmente applicata anche da costoro. La vera teoria della conoscenza del genere umano è il senso comune, nelle infinite varianti sociali e geografiche, tanto poco evolutive da sembrare impermeabili ad ogni cambiamento.
La sua base è sana, è il DNA, che costituisce la conoscenza a priori di ogni essere umano, e che è il sedimento di apprendimenti per “errore e correzione” depositatosi nel corso dell’evoluzione biologica. Ma tale sedimento condiziona fortemente la formazione della successiva conoscenza a posteriori di tipo ambientale, costretta dall’apprendimento per via orale-imitativa a restare indietro di molti secoli ai cambiamenti sociali prodotti dalla conoscenza scientifica.
   Conseguenza inevitabile della rigidità del senso comune è che si porta dietro, insieme al buonsenso di tradizioni, credenze e norme di comportamento ancora valide, un catastrofico fardello di luoghi comuni e falsità rese ormai tali dall’evoluzione ambientale. E’ strutturalmente tolemaico. Come diceva James Brice, “Per la maggior parte della gente, niente crea più problemi dello sforzo di pensare”.
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EFFETTI POLITICO-SOCIALI
   Tutti i grandi cambiamenti sociali ed ambientali del globo sono generati dalle applicazioni della teoria della conoscenza filosofico-scientifica ma subiti passivamente dalle grandi masse guidate dalla teoria della conoscenza del senso comune.
   Ne nasce un senso di estraneità tra due mondi, quello della vera classe dirigente (più alcuni milioni di persone in grado di capirne l’operato) e quello dei miliardi di persone, non importa se con funzioni dirigenti o no, incapaci di abbracciare i meccanismi di una società complessa. Ciò non costituisce almeno apparentemente un problema in società a regime dittatoriale, ma dovrebbe preoccupare molto chi afferma di preferire la democrazia, basata sul consenso popolare.
   La soluzione classica del problema fu il binomio liberalismo + democrazia, che trasposta a livello culturale equivale a conoscenza + cultura nazionalpopolare, in difficile equilibrio.
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CULTURA NAZIONALPOPOLARE
   Per tornare all’Italia, per cause storiche che non sto a ricordare, quando nel XIX secolo ci si avviò alla sua unificazione essa sembrava priva di una cultura popolare unificante, ma disponeva piuttosto di una miriade di culture locali e subnazionali. Una sola era la tradizione presente ovunque: la cultura controriformista della chiesa cattolica, un vero delirio gesuitico innestato sul preesistente machiavellismo medievale. Questa tradizione, che connota tuttora la società italiana grazie al potere imbalsamante del senso comune, divenne la base della cultura nazional popolare italiana, e con essa i politici della nuova nazione si trovarono ben presto a fare i conti.
   Già prima dell’avvento del suffragio universale maschile (1919) i politici, quasi tutti d’ispirazione liberale, oltre a concessioni volte a smorzare l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche, avevano preso una deriva populista per accaparrarsi i voti di una borghesia che non brillava certo per etica anglosassone, mentre la chiesa varava in funzione antiliberale la sua politica sociale sconosciuta allo stato pontificio.
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L’ERRORE DI GRAMSCI
   La polemica di Antonio Gramsci contro l’intellettualità liberale italiana risente dell’impostazione “francescana” di quella cultura nazionalpopolare di cui negava l’esistenza: evidentemente, e non a torto ma con patente contraddizione, aveva del termine cultura un senso più alto. A differenza dell’impostazione “utilitarista” (il “bene” di Bentham e Stuart Mill) della cultura nazionalpopolare anglosassone, il francescanesimo è il prodotto di una società tolemaica e deterministica che ignora la genesi della ricchezza e nega il merito individuale; in linea con la tradizione cattolica esalta la bontà come “virtù”, essendo la definizione del “bene” demandata all’autorità fuori della quale non v’è salvezza (Chiesa? Partito?), verso cui di conseguenza si ha il dovere di un’altra virtù: l’obbedienza.
   Nella polemica antimanzoniana di Gramsci affiora tutta l’estraneità della cultura nazionalpopolare all’etica per cui “il medico pietoso fa la piaga puzzolente”. Per un moralista francescano la teoria degli esiti inintenzionali di Adam Smith (moralista scozzese), per cui ha fatto più bene al mondo un fabbro che per il proprio interesse ha inventato il telaio meccanico di chi ha regalato il suo forziere alla plebe affamata, risulta inaccettabile. Alle vittime piegate da due millenni di cattolicesimo le idee liberali, copernicane ed evolutive, dovevano apparire incomprensibili e malvagie, come spesso erano i catto-borghesi-liberali-per-interesse. Gramsci immaginò di iniziare a costruire una cultura nazional popolare ma non si accorse che ne esisteva già una (chiamiamola pure sottocultura) ad egemonia cattolica (l’errore è sempre identificare cattolico con cristiano) e che con il tramonto del liberalismo tale egemonia sarebbe diventata imbattibile, trasformando la liberaldemocrazia in una pseudodemocrazia.

CAP. V - LA REPUBBLICA
CONTROSTORIA
LIBERALISMO ADDIO?
   La resa finale fu la legge elettorale proporzionale accoppiata al suffragio universale maschile: popolari e socialisti stravinsero e la composizione del parlamento che ne scaturì spianò la strada a Mussolini e al suo ventennio, passato il quale solo Sturzo ebbe l’onestà di riconoscere l’errore diventando maggioritario e presidenzialista, a differenza della maggioranza dei democristiani. I comunisti, rispolverando l’eretico Gramsci in chiave machiavellista, inaugurarono l’antipolitica del “ciò che giova al partito coincide con l’interesse generale”.
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LA REPUBBLICA DEI PARTITI
   Togliatti, spacciando l’art.7 come applicazione della teoria nazionalpopolare  gramsciana, gettò in realtà le basi per le fortune elettorali del PCI nei decenni avvenire, sostituendo al francescanesimo di Gramsci il clericalismo dello Stato Vaticano e rinunciando ad ogni evoluzione in senso laico del senso comune italico. La sua spregiudicatezza tattica fu imitata da decine di partiti della prima e della sedicente seconda repubblica, fino ai fasti odierni, in cui i partiti-compari (complici su finanziamento pubblico, RAI pubblica, municipalizzate, fondazioni bancarie, consigli d’amministrazione e via crescendo) si contendono i voti a colpi di menzogne e di carognate rovesciando le proprie posizioni appena passano da maggioranza a minoranza. Molto peggio del trasformismo di quasi tutti i singoli parlamentari, giustamente sempre più screditati.
   Quando Berlinguer, ormai orfano del compromesso storico, inventò la “questione morale” e fu chiaro che intendeva solo la corruzione pecuniaria  non credevo alle mie orecchie: non un accenno alla corruzione peggiore, quella della menzogna, dell'omissione, della doppia verità che avrebbe coinvolto il suo partito; ma neanche al furto legalizzato, quella prassi che, finanziaria dopo finanziaria, con i suoi emendamenti a favore di cooperative bianche e rosse, sindacati, enti locali lottizzati, corporazioni di tutti i tipi portò all’attuale livello il debito pubblico. Come nel 1967 documentò Giorgio Galli nel suo “Il bipartitismo imperfetto”, subito corretto da Pannella in “monopartitismo imperfetto”, l’88% delle leggi dal 1948 al 1966 furono votate insieme da DC e PCI, e sicuramente la percentuale aumentò nei decenni successivi.
   Per inciso, faccio notare che per il senso comune, che coniuga individuo con egoismo, associazione con altruismo, e comunità nazionale con astrazione, chi ruba per il partito è moralmente migliore di chi ruba per sé. Ma a lume di ragione è moralmente peggiore chi ruba per il partito, perché oltre a impoverire i suoi concittadini rottama la democrazia. Infinitamente peggiore.
   A causa della teoria sensocomunista del fine che giustifica i mezzi (spacciata per realismo), si ebbero due esiti inintenzionali: di gran lunga il più grave fu la strage di moralità e di legalità, che continuerà a lungo a fare strage di persone; poi il saccheggio dello stato (debito pubblico più corruzione), cioè lo scippo del futuro delle generazioni a venire, quelle di oggi, ignare e ignoranti, che si indignano sempre e solo con l’ultimo governo.
   Chi ricorda con quali metodi quella rispettabile, austera signora di nome Nilde Jotti, da presidente della camera, stroncò l’ostruzionismo dei radicali alla finanziaria del 1981? Volevano solo che gli italiani sapessero che strada stava imboccando il debito pubblico; dai media gli italiani di allora furono informati di un gruppo di esaltati che paralizzava le istituzioni democratiche. Chissà se un giorno uno storico andrà a scavare in cerca dei padri dell’attuale catastrofe, berlusconismo compreso.
   Oggi i sensocomunisti cadono dalle nuvole e si indignano, ma continuano diabolicamente a pensare che in politica chi ha ragione con troppo (?!) anticipo ha torto. Come sull’esilio per Saddam, per la richiesta che Jugoslavia, Israele e Turchia fossero integrate in un’Europa federale. Un paese senza memoria è un paese senza futuro (L.Sciascia).
CAP. VI - A FUTURA MEMORIA
SE LA MEMORIA HA UN FUTURO
DEMOCRAZIA ADDIO?
   Finora la democrazia grazie ai sistemi politici anglosassoni, ma specialmente a quello americano, è riuscita a restare il peggior sistema di governo ad eccezione di tutti gli altri, ma quanto potrà resistere all’assalto sempre più evidente del populismo? E la Cina è vicina, con la sua pretesa storica di superiorità culturale tipica delle società chiuse; nel caso migliore (quello peggiore essendo legge e ordine alla cinese) l’Asia deve ripercorrere tutte le convulsioni sociali che hanno sempre accompagnato lo sviluppo industriale e non credo che il pianeta sia in grado di sopportarle.
   Dichiaro perciò tutto il mio pessimismo per un futuro dell’umanità privata dell’ umanesimo; ma se proprio mi devo esporre ad indicare una soluzione al problema dirò che sono quasi certo – nei limiti ristretti delle “certezze” concesse all’uomo – che non può essere altro che invertire la rotta per riportare la democrazia e il suo principe-popolo-sovrano al rispetto delle norme di comportamento, cioè all’etica. Purtroppo non credo che sarà possibile senza passare per una crisi sociale devastante. Politica, economia, arte ed ogni attività umana possono rivendicare una propria autonomia (ma non indipendenza) dall'etica, la democrazia no: ne muore.
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CHE FARE ?: SOLO UN ACCENNO
   Bisognerebbe innanzitutto dotarsi di strutture politiche che proteggano gli eletti dal ricatto continuo delle oligarchie di partito e delle masse politicamente analfabete e sottoproletarizzate, rese isteriche dall’ignoranza che gli fa vivere la condizione di minoranza come mancanza di democrazia. Fallito il generoso tentativo di Marx di creare coscienza di classe per fare l’uomo nuovo, e quello altrettanto generoso ma più ingenuo di Gramsci di costruire una cultura nazionalpopolare decente, si dovrebbe tornare a ricostruire un equilibrio tra diritti e doveri, con tutto il gradualismo del caso ma senza mai deviare neanche di un millimetro da quella direzione.
   Una costituzione liberale dovrebbe limitarsi a garantire le “libertà da” per consentire ai cittadini di poter operare per guadagnarsi con la sua fatica le “libertà di”, senza confondere i due concetti. Come diceva sarcasticamente Tocqueville agli estremisti dei diritti universali, “...se vogliamo metterci tutto, cosa resta se non liberare l’uomo anche dall’affanno del respirare e dalla fatica del vivere?”.
   Ci sono due modi di essere sudditi: pensare di avere solo doveri e pensare di avere solo diritti.
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COSTITUZIONALIZZARE I PARTITI
   Tra le varie modifiche costituzionali dettate dall’esperienza, la prima e di gran lunga la più importante dovrebbe essere una norma che riconosca ai partiti una funzione maggiore ma più essenziale, con l’indicazione del modello a cui improntarsi, i cui costi non siano incompatibili con l’onestà e il rispetto della legge, la cui violazione  deve prevedere le stesse sanzioni applicate ad altre forme di attentato alle istituzioni repubblicane. Norme che incentivino il partito-strumento rispetto al partito-chiesa. Per spiegare cos’è un partito-strumento ci vuole un testo apposito, (vedi:   http://rottamatoio.blogspot.it/2012/02/politica-4-il-partito-aperto-e-i-suoi.html  ); per il partito-chiesa basta guardarsi attorno.

   La legge elettorale dovrebbe rispondere all’esigenza di porre l’elettore di fronte a scelte semplici e non ideologiche: un candidato contro un altro candidato, in modo che di loro sia possibile sapere tutto (presente e passato, idee e programmi) anche nel breve spazio di una campagna elettorale e che poi sia possibile controllare e giudicare. Perfino al sud questo sistema ha già dimostrato di funzionare. Un mafioso o tanti mafiosi possono pure riuscire a farsi eleggere, ma la sfida va accettata con la fiducia che il tempo è galantuomo e dare agli elettori tutto il tempo per imparare che la disonestà non rende. L’errore è un grande maestro e bisogna lasciarlo lavorare invece di rafforzare con la nostra isteria l’errante nel suo diabolico perseverare.
   Va anche esplicitato meglio che il voto è un diritto e non un dovere, e che per goderne si deve avere il diritto giuridico di essere informati ma anche il dovere morale di tenersi informati, altrimenti si ha il dovere morale, anche se non giuridico, dell’astensione.
   Più che il pareggio di bilancio metterei in costituzione, per rispetto alle generazioni future, il tetto al debito pubblico, che dovrebbe restare normalmente al 50% per non rischiare di superare il 70% in caso di forte recessione:. Non aggiungo altro, ho voluto solo dare un’idea di come interrompere un circolo vizioso e aprirne uno virtuoso.     
CONCLUSIONE

   Tutto ciò è pura utopia: oggi nessun partito, nessun governo, pochi elettori sono disposti a riforme del genere. Affinché esca dall’utopia e diventi qualcosa di proponibile in direzione del riavvicinamento tra etica e democrazia c’è bisogno di due condizioni: una molto probabile ed una molto improbabile ma possibile. La molto probabile è una catastrofe sociale, economica, bellica o ambientale paragonabile alla seconda guerra mondiale. La molto improbabile è che i superstiti abbiano imparato qualcosa. 

   Eppure io non sono un pessimista, ma solo un ottimista che si è informato. Un lettore razionale mi chiederà: “Ma se veramente la pensi così perché continui ad occuparti di politica?”. Premettendo che la politica ormai la studio ma non la faccio più, gli devo una risposta altrettanto seria:

   “Perché mi piace la conoscenza, cioè la vera cultura. E perciò, come Jared Diamond e Jane Goodall, mi diverto da matti a studiare ed osservare l’attività del terzo scimpanzé”. Homo Sapiens o piuttosto Pan  Demens?
   Grazie dell’attenzione, torno a giocare con la mia capretta Karma, è simpatica e fa meno danni degli scimpanzé (per quanto ci provi).