martedì 14 maggio 2019

EMBRIONI: NON ESISTE L’ORA X

Non avrei mai immaginato che qualcuno si potesse interessare tanto al dettaglio cronologico delle prime fasi della formazione dell’embrione. Ma sento e leggo di continue dispute sull’argomento, tanto più accese quanto più confuse.

Ci si chiede quando comincia la vita umana; se due giorni dopo la fecondazione si può già parlare di essere umano oppure no; oppure se occorre per questo aspettare la fine della seconda settimana; se l’embrione è un individuo in potenza o in atto e via discorrendo.
Antonio Socci, in un’intervista pubblicata dal Corriere lunedì scorso, vuole sapere in quale momento preciso l’embrione diventa essere umano (“Da anni – dice Socci – noi cattolici poniamo una domanda: se l’embrione al primo stadio non è un essere umano, qualcuno dovrebbe dire in quale momento preciso lo diventa e non così, per convenzione, ma con un certo appiglio scientifico”). Si mischiano e si confondono in queste polemiche concetti molto diversi come quello di vita, di essere umano, di concepito, di embrione, di individuo e di persona, umana o giuridica.

Cominciamo con l’inizio della vita di un organismo. Non c’è dubbio che la vita di un organismo specifico – ranocchio, gatto o uomo – inizia con la fecondazione, cioè con la congiunzione di un gamete maschile, lo spermatozoo, e uno femminile, la cellula-uovo o ovocita maturo.
Il processo dura diverse ore, per cui non è facile dire esattamente quando inizi la nuova vita, ma certamente una condizione necessaria per poter parlare di una nuovo organismo è che si combinino tra loro i Dna dei due genomi, quello paterno e quello materno, per dar vita ad un menoma nuovo e molto probabilmente unico.
L’uovo fecondato prende il nome di zigote. E’ una singola cellula, ma si mette subito in moto per duplicarsi e dare due cellule, poi quattro, poi otto, poi sedici. Fino a questo punto ha la forma di una minuscola mora e prende non a caso il nome di morula. A partire dallo stadio di 32 cellule, all’interno della massa compatta della morula si forma una minuscola cavità. Si è passati così allo stadio di blastula o più precisamente di blastocisti. Il numero di cellule continua a crescere, anche se lentamente; la cavità s espande e verso il quarto giorno comincia a vedersi una masserella di cellule. Questa masserella è chiamata massa cellulare interna dagli autori anglosassoni mentre da noi viene detto in genere embrioblasto o, in una fase leggermente più avanzata, bottone embrionale. Da questa masserella e solo da questa trarrà origine il futuro embrione, mentre tutto quello che c’era prima e che c’è intorno ad essa a questo stadio contribuirà soltanto a formare le membrane delle quali l’embrione avrà bisogno per nutrirsi durante la gestazione, ma che alla fine del parto verranno gettate via. Occorre notare che questa caratteristica riguarda solo i mammiferi, mentre non ha l’uguale in altre categorie di animali. Sarebbe molto interessante soffermarsi su questa osservazione, ma non è ora il caso. Può accadere in questo stadio che all’interno della stessa blastocisti, di masserelle cellulari interne se ne formino due (o tre) invece di una sola. In questo caso si giungerà ad avere due (o tre) gemelli, cosiddetti identici, invece di un solo individuo.

Fino a questo punto tutto è avvenuto all’interno della tuba e la blastocisti è ancora libera di vagare. Non sopravvivrebbe però a lungo se non si impiantasse, attraverso una complessa successione di eventi, nel tessuto dell’utero materno, dal quale trarrà d’ora in poi il nutrimento. La fase dell’impianto nell’utero è una fase molto critica, passata la quale la blastocisti ce l’ha quasi fatta e l’embrioblasto che quella contiene può cominciare a nutrire qualche fiducia nella possibilità di dar luogo ad un bambino o ad una bambina.
E’ bene notare però che al suo interno l’embrioblasto non ha ancora una minima traccia di polarità. Non sa ancora, in parole povere, dove avrà la testa e dove la coda. I primi segni di questa polarità testa-coda compaiono all’interno dell’embrioblasto verso la fine della seconda settimana di gestazione. A circa tredici giorni si comincia a distinguere un asse corporeo principale e il giorno successivo, il quattordicesimo, i primi tenui segni di un sistema nervoso centrale e di una struttura spinale.
A questo stadio il bottone embrionale, lungo poco più di un decimo di millimetro, comincia progressivamente a prendere la forma definita di embrione. Compariranno ancora altri organi e tutti quanti dovranno crescere di dimensioni e maturare,  ma lo schema generale del corpo è già lì. Sullo sfondo di questa successione di eventi possiamo ora porci domande più specifiche.

Quando comincia la vita? Senza voler cavillare che la vita è cominciata una volta sola quasi quattro miliardi di anni fa, possiamo affermare, come già detto, che la vita di un particolare organismo comincia in condizioni normali con la fecondazione, cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno. Non è un processo istantaneo per cui non ha senso chiedersi esattamente il momento di questa unione, Lo zigote così ottenuto è un individuo? E, soprattutto, è un individuo la morula di otto o sedici cellule presente il giorno dopo, cioè il secondo giorno di gestazione, quando si può eseguire, volendo, una diagnosi reimpianto? E’ certamente un progetto di individuo, ma lo diverrà effettivamente soltanto nel 15-20% dei casi, perché la maggioranza delle morule non porterà, anche in condizioni normali, a nessun embrione e una percentuale non trascurabile di queste porteranno a due o più embrioni. E’ bene notare che è una fortuna che non tutte le morule giungano a dare un embrione. Si tratta infatti di un fondamentale “periodo di prova” durante il quale le morule che potrebbero dar luogo a embrioni difettosi vengono “saggiate” dalla natura e eventualmente scartate.

Quando comincia l’embrione? Se per embrione intendiamo l’insieme delle parti che formeranno il suo corpo, queste non compaiono prima del quarto-quinto giorno. Prima non ci sono e fino al dodicesimo giorno sono assolutamente informi.
Quando è che l’embrione è un essere senziente? Non lo sappiamo con certezza, ma è difficile pensare che ciò possa accadere, anche solo potenzialmente, prima della comparsa di una minima traccia di sistema nervoso, comparsa che si registra il quattordicesimo giorno.
Quando è che un embrione diventa persona e come tale gode dei diritti scritti e non scritti spettanti ad una persona? Questa è una domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale e qui mi fermo. Ma non senza aver notato che alla fin fine è questa l’unica domanda rilevante, alla quale tutti siamo chiamati a dare una risposta, anche provvisoria e rivedibile. Per noi e per i nostri figli.

Dal punto di vista biologico non c’è nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita e oltre. Questo non significa che non si possano porre degli spartiacque, come quando si è deciso che a 18 anni una persona è maggiorenne. Non succede niente di particolare a 18 anni, ma la convenzione umana ha fissato questo limite e a volte lo ha anche cambiato. Una convenzione, appunto. Non possiamo chiedere alla natura o alla scienza di cavare le castagne dal fuoco al posto nostro. Occorre prenderci le nostre responsabilità e fissare dei limiti che non potranno che avere una componente di convenzionalità. D’altra parte è una scelta che spetta all’uomo in una autentica prospettiva umanistica.

    Edoardo Boncinelli

sabato 2 settembre 2017

GRILLIADE - pochi appunti su una visione del mondo


7 marzo 2013 - "Vogliamo il 100% del Parlamento, non il 20% o il 25 o il 30%". E’ una delle frasi a effetto che Beppe Grillo sfoggia in un'intervista a Time.
Anche Erdogan deve averlo letto. Per fortuna non c’è ancora riuscito.

dicembre 2014 – “Lo confesso, sono un eversore, mi faccio schifo, Napolitano ha ragione. Pago le tasse, non rubo, denuncio il malaffare, non mi faccio i cazzi miei e nessuno ha ancora cercato di comprarmi.
Basta sostituire Napolitano con Von Hindenburg, cancellare “mi faccio schifo” e aggiungere “…e sono pure vegetariano” e la frase avrebbe potuto essere pronunciata da un certo Adolf Hitler 82 anni prima.

13 aprile 2016 – “Il giorno dopo la morte del fondatore e ideologo del M5S è venuto alla luce Rousseau, lo strumento tanto promesso e voluto proprio da Casaleggio per concretizzare il suo sogno di democrazia diretta e partecipata attraverso la rete.”  http://formiche.net/blog/2016/04/27/rousseau-casaleggio-piattaforma/
“La teoria politica di Rousseau è esposta nel Contratto Sociale, pubblicato nel 1762. Questo libro è di carattere assai diverso dalla maggior parte dei suoi scritti; contiene poco sentimento e molto ragionamento rigidamente intellettuale. Le dottrine esposte, pur rendendo formale omaggio alla democrazia, tendono a giustificare lo Stato totalitario.”…….………“Rousseau dice che la democrazia è migliore nei piccoli Stati (le città-stato dell’antica Grecia – ndr), l’aristocrazia in quelli di media grandezza, la monarchia nei grandi.”  Bertrand Russell – Storia della filosofia occidentale.

11 agosto 2017 – Quelli del “mai più condoni”: <<Anche il candidato del M5S ha assunto una posizione precisa.>>
"Avevo incontrato Cancelleri mesi fa e mi aveva incoraggiato ad andare avanti con le demolizioni. Ora gli sento dire che agli "abusivi per necessità" non verrà demolita la casa. Ma chi sono gli abusivi per necessità? Sono solo slogan per avere i voti di questa gente".

A dire il vero a me era bastata l’intervista del 2013 per capire che con una tale ignoranza istituzionale sperare che i giovani vergini (politicamente parlando) plaudenti a siffatta prosa potessero realizzare la democrazia diretta era come nel 1923 esultare perché il fascismo faceva finalmente arrivare i treni in orario.

Quando poi Casaleggio intestò a Rousseau la sua piattaforma capii anche che essa non era stata creata per il M5S ma che era il M5S che era stato creato per la piattaforma Rousseau, la vera alternativa alla democrazia rappresentativa.

domenica 6 novembre 2016

rabbia e complotti

Il complottismo è un antico meccanismo psicologico che, benché conosciuto da secoli, continua a non destare alcun ridicolo nel senso comune: al massimo, in alcuni, un po' di cauto scetticismo. Un paio di secoli fa (citando uno scritto di un secolo prima sulle torture agli untori della peste a Milano di un'altro secolo precedente: e siamo al 1628) Alessandro Manzoni osservava come ".....gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza (che la diffusione del morbo fosse opera di untori - ndr): ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno (P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica.....), le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi............Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. (A. Manzoni - I promessi sposi - Cap. XXXII).
Nello sviluppo di un boom complottistico si nota l'improvvisa apparizione di un'indignazione di massa per l'esplodere di un problema che qualsiasi persona ragionevole avrebbe potuto scorgere, affrontare e risolvere con un anticipo di anni se non di decenni, invece di aspettare che la matassa s'ingarbugliasse a tal punto da diventare inestricabile. Una tale tardiva indignazione fa sì che non sia più possibile rimediare al problema, oppure solo a carissimo prezzo per tutti: di qui la trasformazione dell'indignazione ormai impotente in rabbia pura, quella che offusca ancor più la mente.
Piuttosto che ammettere almeno un proprio concorso di colpa, la folla individua una o più categorie di umani (famosi gli zingari, gli ebrei, i banchieri, gli immigrati, gli americani, i meridionali, i musulmani, gli israeliani......e via fantasticando) su cui scaricare la propria rabbia convincendosi che quel problema non è il frutto di una causa di forza maggiore, del DNA di homo sapiens, di un deficit di conoscenza, dell'inesattezza delle scienze umane, della paura per il diverso, ma di un sordido complotto di altri umani mossi, diversamente da noi, da intenzioni egoistiche e malvagie.
Sono ben cosciente che non tutti i nostri mali sono di origine naturale, e che quelli che più indignano hanno origini esclusivamente umane, come la mala politica, i suoi costi, la speculazione finanziaria, l'ingiustizia sociale e via dicendo, ma la mia critica è diretta a due caratteristiche della reazione popolare: la prima è l'incapacità di distinguere l'origine del male, da cui il "piove, governo ladro!", la seconda è la tendenza ad associare qualsiasi male non all'incapacità della classe dirigente, ma, appunto, ad una cospirazione. Un esempio: quando Beppe Grillo scrive "i media sono pagati dai partiti" non solo dice una cosa quanto meno inesatta, ma soprattutto fa un errore d'ignoranza o d'ingenuità: i giornalisti non hanno alcun bisogno che i partiti li paghino per dargli addosso, lo fanno spontaneamente; il che è molto più difficile da combattere di un plateale fenomeno di corruzione, e tale realtà è perciò molto più difficile da estirpare.
Con tale meccanismo psicologico ci si assolve dal dovere civico della pre-occupazione per il domani della propria comunità e si può continuare a restare sudditi piuttosto che cittadini: basta avere abbastanza capri espiatori tra i tanti che, appena un po' più colpevoli, hanno approfittato della negligenza dei sudditi. Un bel repulisti una volta ogni morte di papa e il gioco ricomincia: tra le macerie.

domenica 5 ottobre 2014

onore delle armi

  Ugo Sposetti è, secondo me, il più puro, sincero e leale rappresentante di quei "duri a morire" (come il giovane liberale John M. Keynes definiva i vecchi liberali del suo tempo) che non concepiscono altra forma-partito che quella clerico-leninista, o partito-chiesa, a cui io addebito la forma partitocratica assunta dal postfascismo (vedi  Etica e Politica - Partitocrazia: http://rottamatoio.blogspot.it/2011/12/pillolone-1-democrazia-senza-etica.html  ): "...Quando nel 1948 - complice lo scoppio della guerra fredda - iniziò la prima legislatura, fu subito chiaro che non sarebbe stato così: partiti a struttura clientelare e partiti a struttura leninista, finalmente liberi da pastoie liberaliste, assunsero definitivamente la forma di partito-chiesa, con le sue parrocchie, le sue sezioni, le sue cooptazioni di fideisti, i suoi giuramenti di fedeltà e conseguenti tribunali dell’inquisizione (detti probiviri), in cui vige l’esame di ammissione perché la responsabilità non è individuale ma l’indegnità di ogni iscritto infanga tutta la comunità di santi, ogni distinguo è un indizio di eresia, ogni dissenso un tradimento. A partire dai parlamentari, vincolati alla disciplina di partito, of course. Il finanziamento pubblico sancì l’avvenuta statalizzazione della politica."

   Debbo tuttavia ammettere che la coerenza e l'orgoglio con cui Sposetti vive la sua fede partitocratica (di cui il mai sufficiente finanziamento pubblico non è stato certo la conseguenza più catastrofica) lo rende degno dell'onore delle armi nel momento del suo auspicato ma non sicuro tracollo. Godetevi questa bella intervista; *le note in corsivo celeste sono mie.

http://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_Sposetti 


Alessandro De Angelis - huffingtonpost.it 03/10/2014 
Flop tessere Pd, intervista a Ugo Sposetti: "Che sofferenza questi dati. Il partito è stato umiliato"

D - Renzi dice: “C’è a chi piace un partito con 400mila iscritti ma al 25 per cento”.
R -   (voce ironica) Il segretario dice che si va avanti così. Facciamo come dice Renzi.

D - Ma scusi Sposetti, io non capisco queste polemiche sul flop delle tessere. In fondo, sono anni che si parla di partito all’americana e partito liquido. E Renzi l’ha fatto.
 R -  Non diciamo sciocchezze. Il partito all’americana non è così. Se vogliamo fare un discorso serio, iniziamo col dire che il partito democratico americano non è liquido, anzi è organizzato eccome *(ma non è a modello clerico-leninista europeo).
Che cosa ha fatto Obama? Ha preso il palazzone a Chicago, quello che chiamano “la Bestia”, e ci ha messo 2000 persone. Duemila, ha capito? Quelle persone sanno tutto del partito, dell’organizzazione, dei dati alle elezioni in ogni contrada.

D - Va bene, non sarà all’americana ma il Pd dai dati pare molto liquido.
R -   I dati sono la conseguenza di una serie di errori commessi sulla vita democratica. Domando io: come si organizza la vita democratica? Mi si dice che non siamo più agli anni Cinquanta, e che i partiti come li stabilisce l’articolo 49 della Costituzione non ci possono essere più. Dico, benissimo. Se lo argomenti bene, ma poi di devi spiegare come lo scrivi. La verità è che le difficoltà dei partiti e dei sindacati stanno nel non aver dato attuazione nell’articolo 49 e 39 della Costituzione. *(ma quello liquido non è l’unica alternativa al partito clerico-leninista).

D - E invece è successo l’opposto.
R -   Ecco. Le faccio un esempio simbolico. Siamo a gennaio 2008, il segretario dice: “Non ci saranno più le feste dell’Unità ma quelle democratiche”. È il momento in cui “basta comunisti” e “serve una rottura". Le feste si chiamano in cento modi diversi: dell’Unità, Democratiche dell’Unità, Democratiche, ma chi andava a quell’appuntamento estivo, uscendo da casa diceva: vado alla festa dell’Unità. Dico questo perché la storia non la cancelli, come non cancelli il sentimento di un popolo. Ora Renzi dice: rifacciamo le feste dell’Unità. E può utilizzare il marchio perché c’è stato un cretino, il sottoscritto, che ha continuato a pagare la registrazione di festaunita.it e il logo. *(domanda retorica: con “il sottoscritto” intende con i suoi soldi o con quelli dei DS, cioè del finanziamento pubblico, cioè di tutti noi?)

D - Sposetti, traduco il messaggio. Lei dice: esiste un popolo, una storia. E i dirigenti hanno giocato e giocano con leggerezza con questa storia. Però scusi, il popolo non si tessera più.
R -   Ma lei pensa che si governa il partito con gli hashtag, i tweet e quelle cose che non io ricevo e quindi non leggo? Che cosa è un partito: che chi non ha twitter sta fuori? Quindi io sto fuori?

D - Parliamo del flop delle tessere.
R -   Parliamone. Le regole non l’ho mai capite. Dal 2008 statuto e regolamento finanziario stabiliscono che la tessera la vai a prendere nel tuo circolo dando 20 euro. Non capisco. Con 20 euro non puoi costruire dentro di te, nel tuo animo, nel tuo sentire, l’appartenenza a una comunità (1*) che lotta. Se sei disoccupato, un precario, capisco. Ma se viene lei, che fa il giornalista, io con 20 euro, la tessera, non gliela do.

D - Ci vuole motivazione.
R -   La tessera è una cosa importante, è un simbolo in cui si riconosce una comunità (1*), è come la bandiera per uno Stato. Tu partito devi dargli un valore. Sennò chi glielo dà un valore? E non voglio parlare della storia dei due euro alle primarie per il segretario nazionale, il segretario regionale, il segretario provinciale… *(ma le primarie sono una cosa seria solo in un sistema elettorale a collegi uninominali).

D - È solo una questione di regole o è una questione politica?
R -   Le due cose si intrecciano. L’appartenenza è stata umiliata. In questi anni abbiamo compiuto degli atti. Si è detto: vieni qui, dammi venti euro e io do la tessera. Si è detto che la vita democratica coincide con le primarie. Io invece voglio ascoltare l’artigiano, il professionista, il precario, questa è la vita di partito *(e come? con le sezioni di quartiere??). E per ricostruire una vita democratica la prima condizione è il clima.

D - Si riferisce alle bastonate di Renzi verso la minoranza interna?
R -   Lasciamo stare i bastoni. Ma non sono accettabili i toni verso chi ha un dissenso manifestato nelle sedi deputate a discutere. Ma come si fa a far scrivere dai giornali, e senza smentita alcuna, frasi come “io li asfalto, io li frego” riferite a chi non è d’accordo? Chi dissente non può essere trattato così. Noi dobbiamo ricostruire innanzitutto un clima. Io ho la 45esima tessera in tasca e sono un uomo di partito. E dico: abbassate i toni.

D - Partito significa disciplina. Voi sul jobs act al Senato vi adeguerete alle decisioni della direzione, come chiede Renzi?
R -   La direzione, facendo sfracelli contro una minoranza, ha deciso che il governo presenterà un emendamento per correggere il governo. Giusto? Mi spiego meglio: il documento della direzione dice che il governo correggerà se stesso presentando un emendamento. E adesso al Senato stiamo aspettando.

D - Lo votate o no?
R -   Che cosa? Io aspetto. Forse non mi sono spiegato. Che cosa devo votare che non c’è ancora niente. Quello che arriverà? La vita parlamentare è fatta di testi scritti.

D - Torniamo al concetto di partito.
R -   Spinti dalla piazza, in questi anni è iniziato un percorso che non porta a risultati *(e il 40,8% del 25 maggio?). Ora, io ho messo in cassa integrazione i dipendenti dei ds che hanno scavato il pozzo perché il Pd prendesse acqua da quel pozzo. Ci vuole rispetto. L’attuale gruppo dirigente deve iniziare a rispettare quelli che hanno scavato il pozzo. E ricordare che i 1800 circoli del Pd si riuniscono in sedi che i malvagi comunisti hanno costruito negli anni ’50 e ‘60 *(le tre sezioni PCI che ricordo nella mia infanzia romana – Testaccio, Ostiense e San Saba – erano ospitate gratis nelle case dell’ICP – Istituto Case Popolari) e che malvagi dirigenti dei ds hanno messo a disposizione del Pd. Non mi si parli di generosità.

D - Diciamoci la verità: il Pd di Renzi ha già cambiato pelle. E siamo già oltre.
R -   Questo lo dice lei. Quando vedo questi dati, questi toni, io soffro. Oggi sono stato ad Ancona, domani vado a Venosa a una casa del Popolo intitolata a un giovane bracciante ucciso dalle forze dell’ordine a 22 anni perché faceva lo sciopero a rovescio. Ovvero lavorava senza prendere un salario. Dico: quel bracciante ci ha dato un messaggio o no? (come se il partito di cui Sposetti sente nostalgia avesse mai esortato la sua “comunità” (1*) a seguire quell’esempio).

D - Allora, proviamo a trarre una conclusione dal ragionamento. Di fronte a un partito come lo descrive lei, uno che è di sinistra può sentirsi spinto a fare un altro partito.
R -   Se non stavi al telefono ti mettevo le mani al collo. Voi ne parlate. Scindetevi voi! A me non si deve neanche porre la domanda. La scissione non si farà.

D - Questa è una notizia. Con Renzi dunque siete ancora compatibili.
R -   Non devo avere la compatibilità con nessuno, perché una comunità (1*) è fatta di tante cose diverse, sennò non sarebbe una comunità. Io pretendo una discussione decorosa. E continuo a girare l’Italia a parlare dei valori della sinistra italiana. Punto.

(1*) - Faccio notare come Sposetti dia sempre al termine “comunità” un senso di parte e mai di intera comunità nazionale. Chissà se si accorge di avere ancora dentro quella cultura medievale di guelfi e ghibellini che impedisce all’Italia di essere una nazione e a noi di essere un popolo? Vuole proprio "essere come tutti", per dirla con Francesco Piccolo?Punto.

giovedì 2 ottobre 2014

quattro cani e un gatto



Tra i mille pregiudizi diffusi nel senso comune, quello dell'odio tra cani e gatti ha sempre fatto a pugni con molte mie esperienze del contrario. Ma ci voleva un grande scrittore siciliano come Leonardo Sciascia per raccontare una sua esperienza vissuta di campagna con il tono e la leggerezza di una favola. Eccola:

"Sono come cani e gatti, si dice. Ma da un mio vicino, qui in campagna, ci sono quattro cani e un gatto che non la fanno da cani e gatti; e non solo pacificamente convivono, ma fanno di tutto, i cani, per non guastare al gatto l’illusione, che drammaticamente coltiva, di essere un cane. Ma è tutta una storia: e mi piacerebbe saperla scrivere come Cecov scrive quella della cagnolina Kastanka.
Comunque, i dati sono questi: rimasto orfano e sopravvissuto ai fratelli, il gatto è stato allattato dalla cagna, alla quale era stato lasciato uno solo dei figli; crebbe ruzzando col suo fratello di latte, e trattato come lui dalla cagna che lo aveva allattato e dagli altri due cani. Nessuno gli contestò mai il posto a tavola, cioè intorno al vaso di coccio in cui viene loro servito il rancio, né l’osso da spolpare. Mai un ringhio, verso di lui; tanto più tolleranti anzi con lui, i cani, che tra loro. Il cane di Trilussa dice: «co’ tutto che sapevo ch’era un gatto cercavo de trattallo da  cane».
Questi cani hanno invece trattato il gatto molto meglio di un cane, subendone l’infaticabile vivacità e i capricci. Ma il punto è questo: che hanno sempre saputo che è un gatto. Il gatto, invece, non sa di essere gatto. Si crede un cane. E a volte un cane menomato; a volte un cane virtuoso, di un virtuosismo agli altri cani inaccessibile. Ma che faccia il cane reprimendo i miagolii e andando dietro al padrone, mostrandosi come i cani festoso quando il padrone viene fuori col fucile, o che si abbandoni a un exploit da gatto arrampicandosi ad un albero fino alla cima, il suo è un dramma. E c’è da credere ne abbia toccato il fondo quest’anno, il giorno dell’apertura di caccia.
E andato anche lui dietro al padrone, alla partenza facendo di tutto per essere allegro come i cani, saltellando, correndo. Ma poi si è stancato, si è annoiato, si è messo in disparte. E finì con lo sperdersi. Non tornò a casa, la sera. I cani, che non erano più riusciti a badargli, presi com’erano stati dal piacere della caccia, al ritorno ne avranno notata l’assenza e forse se ne saranno fatti un rimorso. E’ possibile siano andati a cercarlo.

Fatto sta che l’indomani sera il gatto era tra loro: i cani in festa intorno a lui, e specialmente il suo fratello di latte. Ma il gatto mostrava una controvoglia, ai giuochi cui l’invitava il fratello, una indifferenza, una malinconia. Forse aveva capito di non essere un cane, e che gli altri pietosamente lo ingannavano trattandolo da cane. E continua a vivere come prima, ma con una certa stracchezza e noncuranza, come improvvisamente invecchiato. «Se non sono un cane, in nome di Dio, che cosa sono?», sembra domandarsi, standosene in disparte, adagiato su una sedia: da gatto."

Leonardo Sciascia - Nero su Nero (Einaudi Ed. - 1979)

mercoledì 20 agosto 2014

un popolo allo specchio


Guardandoci allo specchio
http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_10/guardandoci-specchio-0df5d698-2055-11e4-b059-d16041d23e13.shtml

A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera.
È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).
Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?
In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.
In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori. A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.
Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» (vedi nota *- ndr) ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.
La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.
Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 10 agosto 2014

(nota*) - “La domanda giusta da porsi non è mai: Chi deve governare? Bensì: Come possiamo organizzare le istituzioni politiche per impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?
                                                                                                   Karl R. Popper

sabato 26 luglio 2014

laissez faire e liberismo

   A conferma dell'osservazione che Leonardo Sciascia, ma non solo, faceva sulla "doppiezza" che da secoli caratterizza la cultura nazional popolare italiana ("non c'è cosa o azione nel nostro paese che non sia viziata dalla doppiezza..."), faccio notare come neanche le parole sfuggano a questo destino, fino a generare una totale insicurezza sul loro significato.
   Si pensi al destino di termini come "politico", che da "servitore della comunità" è diventato un insulto: "ladro". O come pedofilo [dal greco παις, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto)], da "persona che ama i bambini" è diventato sinonimo di "orco che li violenta"; fu per questo che mi passò la voglia di fare il filantropo, da grande: sarebbe arrivato un giorno in cui sarei stato preso per un cannibale! Nel campo dell'economia poi, l'aggettivo "grande" è del tutto scomparso, sostituito da "importante": qualche giorno fa in TV mi aspettavo che un esperto di finanza che ne aveva ampiamente abusato si scusasse per aver avuto "un importante starnuto".
   Non c'è perciò da stupirsi se sorte analoga sia toccata a "liberismo", termine che nella vulgata corrente viene confuso con il "laissez faire" in uso nei paesi anglosassoni, nato in antitesi a protezionismo. Ma mentre "laissez faire" sta ad indicare un'assenza assoluta di intervento statale in economia, e cioè una pratica scomparsa almeno da quando le banche centrali cominciarono a vendere obbligazioni e stampare nuova moneta per finanziare imprese economiche senza entrate fiscali, nel mondo anglosassone il limitato uso di queste "novità" fu accettato senza il bisogno di neologismi. In quello europeo continentale, e in primis in Italia, fu coniato invece il termine "liberismo" da Benedetto Croce che in polemica con Luigi Einaudi sosteneva che il termine liberalismo non presupponeva necessariamente il diritto di proprietà e di iniziativa economica; idea, questa, assolutamente sconosciuta per secoli dove il liberalismo era nato.
   Come se non bastasse, anche se ormai da quasi un secolo John M. Keynes ha dimostrato (e poi la necessità ha imposto ovunque) che l'intervento dello Stato, se limitato in ampiezza e durata, può facilitare l'uscita dalle fisiologiche crisi del sistema capitalista, qui da noi la semplice constatazione che il 55% del PIL annuale gestito dallo Stato è una violenza alla teoria keynesiana viene fatalmente etichettata con nuovi e terrorizzanti neologismi: neoliberismo, liberismo selvaggio, austerità....

   Da una vita cerco invano di convincere amici pur intelligenti (e convinti di non avere una cultura precapitalista di stampo cattolico) che la vita e le opere di liberisti illustri come Luigi Einaudi o Ernesto Rossi (Abolire la miseria) stanno lì a dimostrare che i liberisti sono tutt'altro che gretti egoisti dediti solo ai propri interessi materiali. A loro attenuante, questi miei amici hanno solo l'avvenuta appropriazione dell'aggettivo in questione da parte di quasi tutti i nostri imprenditori, pseudocapitalisti mungitori di risorse statali; appropriazione, bisogna dirlo, consentita dalla mancanza di anticorpi sani nella nostra cultura nazional-popolare.
Continuo la mia predica al vento proponendo alla vostra attenzione questo ottimo articolo, spaziante nei campi della politica, dell'economia, dell'energia e dell'ambiente:

http://derrickenergia.blogspot.it/2011/11/einaudi-la-raffinazione-e-i-salvataggi.html

Einaudi, la raffinazione e i salvataggi industriali 
martedì 15 novembre 2011

“Uno dei fattori più efficaci del successo, della prosperità e dell' attitudine delle imprese economiche a dare ai lavoratori la massima occupazione possibile è la sanzione del fallimento per le imprese male gerite. Sembra in ogni caso difficile dimostrare che il miglior sistema di garantire dalla fame i lavoratori sia di accollare siffatta responsabilità a singole imprese, invece che alla collettività”.
Questo è Luigi Einaudi che nel 1954 risponde a una nota di Piero Calamandrei in cui quest’ultimo teorizzava la dicotomia tra il “diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Einaudi nella sua risposta – pubblicata dal Corriere della Sera del 22 ottobre scorso e disponibile sul web – nega la dicotomia, visto che nega che siano le aziende a dover fare welfare. Le aziende, si potrebbe volgarizzare, devono fare i soldi, nell’alveo di regole e legalità, contribuendo con le tasse alla redistribuzione dei redditi, compito questo invece dello Stato. Dunque non dicotomia tra successo imprenditoriale privato e welfare, ma interdipendenza.

Se non mi sono perso l’articolo del Corriere è grazie a un altro giornale, Quotidiano Energia, che ha pubblicato il 28 ottobre un pezzo di Diego Gavagnin che commenta le richieste di Unione Petrolifera in termini di protezione sul mercato europeo dei prodotti petroliferi raffinati. Mercato difficile perché da un lato i consumi hanno iniziato a flettere, dall’altro c’è la concorrenza dei biocarburanti.

Inciso: qualche giorno fa The Wall Street Journal Europe dava conto dei primi casi di utilizzo di biocombustibili sui jet commerciali, in un articolo il cui titolo con un gioco di parole diceva che le aviolinee “are frying high” (stanno friggendo alto), anziché “flying high” (volando alto). In riferimento all’olio commestibile per frittura che ricondizionato è un biocombustibile.

Ora, la crisi della raffinazione italiana non è forse un caso di “impresa male gerita”, per usare l’espressione di Einaudi. Bensì di eccesso di capacità a fronte di concorrenza di altre fonti e contrazione della domanda di combustibili. Un caso come tanti nell’evoluzione economica e tecnologica. Gavagnin dubita che una protezione del settore renderebbe più ricca non solo la collettività, ma anche lo stesso settore, che se protetto perderebbe competitività. E fa l’interessante parallelismo con l’industria nucleare francese – a lungo protetta – che ora, scrive Gavagnin - non è più in grado di sostituire i vecchi impianti che stanno per cessare la produzione.

Affermazione forte, che non ho gli elementi per approfondire ora, ma su cui proverò a lavorare in qualche Derrick futuro. Ciò che per ora è lampante è che la tecnologia sostanzialmente francese dell’EPR, European Pressurized Reactor, non è per ora stata in grado di portare alla luce nessuna creatura. La prima prevista, il famigerato impianto di Olkiluoto in Filnadia, in grave ritardo di realizzazione, ha appena ammesso un nuovo aumento dei costi, ormai previsti quasi doppi rispetto ai preventivati.