domenica 5 ottobre 2014

onore delle armi

  Ugo Sposetti è, secondo me, il più puro, sincero e leale rappresentante di quei "duri a morire" (come il giovane liberale John M. Keynes definiva i vecchi liberali del suo tempo) che non concepiscono altra forma-partito che quella clerico-leninista, o partito-chiesa, a cui io addebito la forma partitocratica assunta dal postfascismo (vedi  Etica e Politica - Partitocrazia: http://rottamatoio.blogspot.it/2011/12/pillolone-1-democrazia-senza-etica.html  ): "...Quando nel 1948 - complice lo scoppio della guerra fredda - iniziò la prima legislatura, fu subito chiaro che non sarebbe stato così: partiti a struttura clientelare e partiti a struttura leninista, finalmente liberi da pastoie liberaliste, assunsero definitivamente la forma di partito-chiesa, con le sue parrocchie, le sue sezioni, le sue cooptazioni di fideisti, i suoi giuramenti di fedeltà e conseguenti tribunali dell’inquisizione (detti probiviri), in cui vige l’esame di ammissione perché la responsabilità non è individuale ma l’indegnità di ogni iscritto infanga tutta la comunità di santi, ogni distinguo è un indizio di eresia, ogni dissenso un tradimento. A partire dai parlamentari, vincolati alla disciplina di partito, of course. Il finanziamento pubblico sancì l’avvenuta statalizzazione della politica."

   Debbo tuttavia ammettere che la coerenza e l'orgoglio con cui Sposetti vive la sua fede partitocratica (di cui il mai sufficiente finanziamento pubblico non è stato certo la conseguenza più catastrofica) lo rende degno dell'onore delle armi nel momento del suo auspicato ma non sicuro tracollo. Godetevi questa bella intervista; *le note in corsivo celeste sono mie.

http://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_Sposetti 


Alessandro De Angelis - huffingtonpost.it 03/10/2014 
Flop tessere Pd, intervista a Ugo Sposetti: "Che sofferenza questi dati. Il partito è stato umiliato"

D - Renzi dice: “C’è a chi piace un partito con 400mila iscritti ma al 25 per cento”.
R -   (voce ironica) Il segretario dice che si va avanti così. Facciamo come dice Renzi.

D - Ma scusi Sposetti, io non capisco queste polemiche sul flop delle tessere. In fondo, sono anni che si parla di partito all’americana e partito liquido. E Renzi l’ha fatto.
 R -  Non diciamo sciocchezze. Il partito all’americana non è così. Se vogliamo fare un discorso serio, iniziamo col dire che il partito democratico americano non è liquido, anzi è organizzato eccome *(ma non è a modello clerico-leninista europeo).
Che cosa ha fatto Obama? Ha preso il palazzone a Chicago, quello che chiamano “la Bestia”, e ci ha messo 2000 persone. Duemila, ha capito? Quelle persone sanno tutto del partito, dell’organizzazione, dei dati alle elezioni in ogni contrada.

D - Va bene, non sarà all’americana ma il Pd dai dati pare molto liquido.
R -   I dati sono la conseguenza di una serie di errori commessi sulla vita democratica. Domando io: come si organizza la vita democratica? Mi si dice che non siamo più agli anni Cinquanta, e che i partiti come li stabilisce l’articolo 49 della Costituzione non ci possono essere più. Dico, benissimo. Se lo argomenti bene, ma poi di devi spiegare come lo scrivi. La verità è che le difficoltà dei partiti e dei sindacati stanno nel non aver dato attuazione nell’articolo 49 e 39 della Costituzione. *(ma quello liquido non è l’unica alternativa al partito clerico-leninista).

D - E invece è successo l’opposto.
R -   Ecco. Le faccio un esempio simbolico. Siamo a gennaio 2008, il segretario dice: “Non ci saranno più le feste dell’Unità ma quelle democratiche”. È il momento in cui “basta comunisti” e “serve una rottura". Le feste si chiamano in cento modi diversi: dell’Unità, Democratiche dell’Unità, Democratiche, ma chi andava a quell’appuntamento estivo, uscendo da casa diceva: vado alla festa dell’Unità. Dico questo perché la storia non la cancelli, come non cancelli il sentimento di un popolo. Ora Renzi dice: rifacciamo le feste dell’Unità. E può utilizzare il marchio perché c’è stato un cretino, il sottoscritto, che ha continuato a pagare la registrazione di festaunita.it e il logo. *(domanda retorica: con “il sottoscritto” intende con i suoi soldi o con quelli dei DS, cioè del finanziamento pubblico, cioè di tutti noi?)

D - Sposetti, traduco il messaggio. Lei dice: esiste un popolo, una storia. E i dirigenti hanno giocato e giocano con leggerezza con questa storia. Però scusi, il popolo non si tessera più.
R -   Ma lei pensa che si governa il partito con gli hashtag, i tweet e quelle cose che non io ricevo e quindi non leggo? Che cosa è un partito: che chi non ha twitter sta fuori? Quindi io sto fuori?

D - Parliamo del flop delle tessere.
R -   Parliamone. Le regole non l’ho mai capite. Dal 2008 statuto e regolamento finanziario stabiliscono che la tessera la vai a prendere nel tuo circolo dando 20 euro. Non capisco. Con 20 euro non puoi costruire dentro di te, nel tuo animo, nel tuo sentire, l’appartenenza a una comunità (1*) che lotta. Se sei disoccupato, un precario, capisco. Ma se viene lei, che fa il giornalista, io con 20 euro, la tessera, non gliela do.

D - Ci vuole motivazione.
R -   La tessera è una cosa importante, è un simbolo in cui si riconosce una comunità (1*), è come la bandiera per uno Stato. Tu partito devi dargli un valore. Sennò chi glielo dà un valore? E non voglio parlare della storia dei due euro alle primarie per il segretario nazionale, il segretario regionale, il segretario provinciale… *(ma le primarie sono una cosa seria solo in un sistema elettorale a collegi uninominali).

D - È solo una questione di regole o è una questione politica?
R -   Le due cose si intrecciano. L’appartenenza è stata umiliata. In questi anni abbiamo compiuto degli atti. Si è detto: vieni qui, dammi venti euro e io do la tessera. Si è detto che la vita democratica coincide con le primarie. Io invece voglio ascoltare l’artigiano, il professionista, il precario, questa è la vita di partito *(e come? con le sezioni di quartiere??). E per ricostruire una vita democratica la prima condizione è il clima.

D - Si riferisce alle bastonate di Renzi verso la minoranza interna?
R -   Lasciamo stare i bastoni. Ma non sono accettabili i toni verso chi ha un dissenso manifestato nelle sedi deputate a discutere. Ma come si fa a far scrivere dai giornali, e senza smentita alcuna, frasi come “io li asfalto, io li frego” riferite a chi non è d’accordo? Chi dissente non può essere trattato così. Noi dobbiamo ricostruire innanzitutto un clima. Io ho la 45esima tessera in tasca e sono un uomo di partito. E dico: abbassate i toni.

D - Partito significa disciplina. Voi sul jobs act al Senato vi adeguerete alle decisioni della direzione, come chiede Renzi?
R -   La direzione, facendo sfracelli contro una minoranza, ha deciso che il governo presenterà un emendamento per correggere il governo. Giusto? Mi spiego meglio: il documento della direzione dice che il governo correggerà se stesso presentando un emendamento. E adesso al Senato stiamo aspettando.

D - Lo votate o no?
R -   Che cosa? Io aspetto. Forse non mi sono spiegato. Che cosa devo votare che non c’è ancora niente. Quello che arriverà? La vita parlamentare è fatta di testi scritti.

D - Torniamo al concetto di partito.
R -   Spinti dalla piazza, in questi anni è iniziato un percorso che non porta a risultati *(e il 40,8% del 25 maggio?). Ora, io ho messo in cassa integrazione i dipendenti dei ds che hanno scavato il pozzo perché il Pd prendesse acqua da quel pozzo. Ci vuole rispetto. L’attuale gruppo dirigente deve iniziare a rispettare quelli che hanno scavato il pozzo. E ricordare che i 1800 circoli del Pd si riuniscono in sedi che i malvagi comunisti hanno costruito negli anni ’50 e ‘60 *(le tre sezioni PCI che ricordo nella mia infanzia romana – Testaccio, Ostiense e San Saba – erano ospitate gratis nelle case dell’ICP – Istituto Case Popolari) e che malvagi dirigenti dei ds hanno messo a disposizione del Pd. Non mi si parli di generosità.

D - Diciamoci la verità: il Pd di Renzi ha già cambiato pelle. E siamo già oltre.
R -   Questo lo dice lei. Quando vedo questi dati, questi toni, io soffro. Oggi sono stato ad Ancona, domani vado a Venosa a una casa del Popolo intitolata a un giovane bracciante ucciso dalle forze dell’ordine a 22 anni perché faceva lo sciopero a rovescio. Ovvero lavorava senza prendere un salario. Dico: quel bracciante ci ha dato un messaggio o no? (come se il partito di cui Sposetti sente nostalgia avesse mai esortato la sua “comunità” (1*) a seguire quell’esempio).

D - Allora, proviamo a trarre una conclusione dal ragionamento. Di fronte a un partito come lo descrive lei, uno che è di sinistra può sentirsi spinto a fare un altro partito.
R -   Se non stavi al telefono ti mettevo le mani al collo. Voi ne parlate. Scindetevi voi! A me non si deve neanche porre la domanda. La scissione non si farà.

D - Questa è una notizia. Con Renzi dunque siete ancora compatibili.
R -   Non devo avere la compatibilità con nessuno, perché una comunità (1*) è fatta di tante cose diverse, sennò non sarebbe una comunità. Io pretendo una discussione decorosa. E continuo a girare l’Italia a parlare dei valori della sinistra italiana. Punto.

(1*) - Faccio notare come Sposetti dia sempre al termine “comunità” un senso di parte e mai di intera comunità nazionale. Chissà se si accorge di avere ancora dentro quella cultura medievale di guelfi e ghibellini che impedisce all’Italia di essere una nazione e a noi di essere un popolo? Vuole proprio "essere come tutti", per dirla con Francesco Piccolo?Punto.

giovedì 2 ottobre 2014

quattro cani e un gatto



Tra i mille pregiudizi diffusi nel senso comune, quello dell'odio tra cani e gatti ha sempre fatto a pugni con molte mie esperienze del contrario. Ma ci voleva un grande scrittore siciliano come Leonardo Sciascia per raccontare una sua esperienza vissuta di campagna con il tono e la leggerezza di una favola. Eccola:

"Sono come cani e gatti, si dice. Ma da un mio vicino, qui in campagna, ci sono quattro cani e un gatto che non la fanno da cani e gatti; e non solo pacificamente convivono, ma fanno di tutto, i cani, per non guastare al gatto l’illusione, che drammaticamente coltiva, di essere un cane. Ma è tutta una storia: e mi piacerebbe saperla scrivere come Cecov scrive quella della cagnolina Kastanka.
Comunque, i dati sono questi: rimasto orfano e sopravvissuto ai fratelli, il gatto è stato allattato dalla cagna, alla quale era stato lasciato uno solo dei figli; crebbe ruzzando col suo fratello di latte, e trattato come lui dalla cagna che lo aveva allattato e dagli altri due cani. Nessuno gli contestò mai il posto a tavola, cioè intorno al vaso di coccio in cui viene loro servito il rancio, né l’osso da spolpare. Mai un ringhio, verso di lui; tanto più tolleranti anzi con lui, i cani, che tra loro. Il cane di Trilussa dice: «co’ tutto che sapevo ch’era un gatto cercavo de trattallo da  cane».
Questi cani hanno invece trattato il gatto molto meglio di un cane, subendone l’infaticabile vivacità e i capricci. Ma il punto è questo: che hanno sempre saputo che è un gatto. Il gatto, invece, non sa di essere gatto. Si crede un cane. E a volte un cane menomato; a volte un cane virtuoso, di un virtuosismo agli altri cani inaccessibile. Ma che faccia il cane reprimendo i miagolii e andando dietro al padrone, mostrandosi come i cani festoso quando il padrone viene fuori col fucile, o che si abbandoni a un exploit da gatto arrampicandosi ad un albero fino alla cima, il suo è un dramma. E c’è da credere ne abbia toccato il fondo quest’anno, il giorno dell’apertura di caccia.
E andato anche lui dietro al padrone, alla partenza facendo di tutto per essere allegro come i cani, saltellando, correndo. Ma poi si è stancato, si è annoiato, si è messo in disparte. E finì con lo sperdersi. Non tornò a casa, la sera. I cani, che non erano più riusciti a badargli, presi com’erano stati dal piacere della caccia, al ritorno ne avranno notata l’assenza e forse se ne saranno fatti un rimorso. E’ possibile siano andati a cercarlo.

Fatto sta che l’indomani sera il gatto era tra loro: i cani in festa intorno a lui, e specialmente il suo fratello di latte. Ma il gatto mostrava una controvoglia, ai giuochi cui l’invitava il fratello, una indifferenza, una malinconia. Forse aveva capito di non essere un cane, e che gli altri pietosamente lo ingannavano trattandolo da cane. E continua a vivere come prima, ma con una certa stracchezza e noncuranza, come improvvisamente invecchiato. «Se non sono un cane, in nome di Dio, che cosa sono?», sembra domandarsi, standosene in disparte, adagiato su una sedia: da gatto."

Leonardo Sciascia - Nero su Nero (Einaudi Ed. - 1979)

mercoledì 20 agosto 2014

un popolo allo specchio


Guardandoci allo specchio
http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_10/guardandoci-specchio-0df5d698-2055-11e4-b059-d16041d23e13.shtml

A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera.
È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).
Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?
In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.
In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori. A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.
Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» (vedi nota *- ndr) ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.
La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.
Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 10 agosto 2014

(nota*) - “La domanda giusta da porsi non è mai: Chi deve governare? Bensì: Come possiamo organizzare le istituzioni politiche per impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?
                                                                                                   Karl R. Popper

sabato 26 luglio 2014

laissez faire e liberismo

   A conferma dell'osservazione che Leonardo Sciascia, ma non solo, faceva sulla "doppiezza" che da secoli caratterizza la cultura nazional popolare italiana ("non c'è cosa o azione nel nostro paese che non sia viziata dalla doppiezza..."), faccio notare come neanche le parole sfuggano a questo destino, fino a generare una totale insicurezza sul loro significato.
   Si pensi al destino di termini come "politico", che da "servitore della comunità" è diventato un insulto: "ladro". O come pedofilo [dal greco παις, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto)], da "persona che ama i bambini" è diventato sinonimo di "orco che li violenta"; fu per questo che mi passò la voglia di fare il filantropo, da grande: sarebbe arrivato un giorno in cui sarei stato preso per un cannibale! Nel campo dell'economia poi, l'aggettivo "grande" è del tutto scomparso, sostituito da "importante": qualche giorno fa in TV mi aspettavo che un esperto di finanza che ne aveva ampiamente abusato si scusasse per aver avuto "un importante starnuto".
   Non c'è perciò da stupirsi se sorte analoga sia toccata a "liberismo", termine che nella vulgata corrente viene confuso con il "laissez faire" in uso nei paesi anglosassoni, nato in antitesi a protezionismo. Ma mentre "laissez faire" sta ad indicare un'assenza assoluta di intervento statale in economia, e cioè una pratica scomparsa almeno da quando le banche centrali cominciarono a vendere obbligazioni e stampare nuova moneta per finanziare imprese economiche senza entrate fiscali, nel mondo anglosassone il limitato uso di queste "novità" fu accettato senza il bisogno di neologismi. In quello europeo continentale, e in primis in Italia, fu coniato invece il termine "liberismo" da Benedetto Croce che in polemica con Luigi Einaudi sosteneva che il termine liberalismo non presupponeva necessariamente il diritto di proprietà e di iniziativa economica; idea, questa, assolutamente sconosciuta per secoli dove il liberalismo era nato.
   Come se non bastasse, anche se ormai da quasi un secolo John M. Keynes ha dimostrato (e poi la necessità ha imposto ovunque) che l'intervento dello Stato, se limitato in ampiezza e durata, può facilitare l'uscita dalle fisiologiche crisi del sistema capitalista, qui da noi la semplice constatazione che il 55% del PIL annuale gestito dallo Stato è una violenza alla teoria keynesiana viene fatalmente etichettata con nuovi e terrorizzanti neologismi: neoliberismo, liberismo selvaggio, austerità....

   Da una vita cerco invano di convincere amici pur intelligenti (e convinti di non avere una cultura precapitalista di stampo cattolico) che la vita e le opere di liberisti illustri come Luigi Einaudi o Ernesto Rossi (Abolire la miseria) stanno lì a dimostrare che i liberisti sono tutt'altro che gretti egoisti dediti solo ai propri interessi materiali. A loro attenuante, questi miei amici hanno solo l'avvenuta appropriazione dell'aggettivo in questione da parte di quasi tutti i nostri imprenditori, pseudocapitalisti mungitori di risorse statali; appropriazione, bisogna dirlo, consentita dalla mancanza di anticorpi sani nella nostra cultura nazional-popolare.
Continuo la mia predica al vento proponendo alla vostra attenzione questo ottimo articolo, spaziante nei campi della politica, dell'economia, dell'energia e dell'ambiente:

http://derrickenergia.blogspot.it/2011/11/einaudi-la-raffinazione-e-i-salvataggi.html

Einaudi, la raffinazione e i salvataggi industriali 
martedì 15 novembre 2011

“Uno dei fattori più efficaci del successo, della prosperità e dell' attitudine delle imprese economiche a dare ai lavoratori la massima occupazione possibile è la sanzione del fallimento per le imprese male gerite. Sembra in ogni caso difficile dimostrare che il miglior sistema di garantire dalla fame i lavoratori sia di accollare siffatta responsabilità a singole imprese, invece che alla collettività”.
Questo è Luigi Einaudi che nel 1954 risponde a una nota di Piero Calamandrei in cui quest’ultimo teorizzava la dicotomia tra il “diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Einaudi nella sua risposta – pubblicata dal Corriere della Sera del 22 ottobre scorso e disponibile sul web – nega la dicotomia, visto che nega che siano le aziende a dover fare welfare. Le aziende, si potrebbe volgarizzare, devono fare i soldi, nell’alveo di regole e legalità, contribuendo con le tasse alla redistribuzione dei redditi, compito questo invece dello Stato. Dunque non dicotomia tra successo imprenditoriale privato e welfare, ma interdipendenza.

Se non mi sono perso l’articolo del Corriere è grazie a un altro giornale, Quotidiano Energia, che ha pubblicato il 28 ottobre un pezzo di Diego Gavagnin che commenta le richieste di Unione Petrolifera in termini di protezione sul mercato europeo dei prodotti petroliferi raffinati. Mercato difficile perché da un lato i consumi hanno iniziato a flettere, dall’altro c’è la concorrenza dei biocarburanti.

Inciso: qualche giorno fa The Wall Street Journal Europe dava conto dei primi casi di utilizzo di biocombustibili sui jet commerciali, in un articolo il cui titolo con un gioco di parole diceva che le aviolinee “are frying high” (stanno friggendo alto), anziché “flying high” (volando alto). In riferimento all’olio commestibile per frittura che ricondizionato è un biocombustibile.

Ora, la crisi della raffinazione italiana non è forse un caso di “impresa male gerita”, per usare l’espressione di Einaudi. Bensì di eccesso di capacità a fronte di concorrenza di altre fonti e contrazione della domanda di combustibili. Un caso come tanti nell’evoluzione economica e tecnologica. Gavagnin dubita che una protezione del settore renderebbe più ricca non solo la collettività, ma anche lo stesso settore, che se protetto perderebbe competitività. E fa l’interessante parallelismo con l’industria nucleare francese – a lungo protetta – che ora, scrive Gavagnin - non è più in grado di sostituire i vecchi impianti che stanno per cessare la produzione.

Affermazione forte, che non ho gli elementi per approfondire ora, ma su cui proverò a lavorare in qualche Derrick futuro. Ciò che per ora è lampante è che la tecnologia sostanzialmente francese dell’EPR, European Pressurized Reactor, non è per ora stata in grado di portare alla luce nessuna creatura. La prima prevista, il famigerato impianto di Olkiluoto in Filnadia, in grave ritardo di realizzazione, ha appena ammesso un nuovo aumento dei costi, ormai previsti quasi doppi rispetto ai preventivati.

martedì 22 luglio 2014

i nodi al pettine: modello emilia

http://ilgarantista.it/2014/07/17/la-sconfitta-di-errani-e-del-modello-emilia/

La sconfitta di Errani e del modello Emilia
di Giuliano Cazzola - IL GARANTISTA, 17 luglio 2014

Sono persuaso che Vasco Errani sia una persona perbene e che la sua condanna in Appello sia la conseguenza di un classico ‘’teorema’’ (come si diceva una volta). Errani è accusato di falso ideologico per quanto riguarda una relazione predisposta dagli uffici competenti della Regione che forniva argomenti utili a scagionare il presidente dall’accusa di aver favorito l’impresa del fratello. Ma nella vicenda politica ed umana di Vasco Errani vi sono parecchi elementi che inducono ad amare riflessioni. Non più tardi di 18 mesi or sono, il nostro era una delle personalità politiche apparentemente tra le più potenti d’Italia. Presidente dell’organismo rappresentativo delle Regioni e plenipotenziario di Pier Luigi Bersani già pareva destinato ad occupare, a Palazzo Chigi, l’incarico ora ricoperto da Graziano Delrio. Poi tutto è precipitato in fretta: la mancata vittoria elettorale della coalizione di sinistra, l’impossibilità di comporre una maggioranza con il M5s (e di andare a cercarne in Aula una di straforo a causa del parere contrario del Quirinale), i mesi del governo Letta-Facta (all’insegna del ‘’nutro fiducia’’), poi la ‘’resistibile ascesa’’ di Matteo Renzi e dei suoi Puffi.

Tutto è avvenuto così velocemente che Errani, abituato ai tempi in cui la politica era ancora una cosa seria, non solo ha rifiutato, meritoriamente, di precipitarsi a salire sul carro del vincitore (come ha fatto, sgomitando, gran parte del gruppo dirigente bolognese ed emiliano-romagnolo), ma non è riuscito neppure a prefigurare una strategia alternativa per sé, rimanendo attaccato – un po’ per celia, un po’ per non morir – ad una poltrona che comunque avrebbe dovuto lasciare dopo averla occupata per quasi un ventennio.

Alla fine, Errani è caduto per un fatto imprevisto: un collegio giudicante che in appello ha ribaltato  la sentenza di primo grado. Per chi si è nutrito di pane e politica tutta la vita, esserne estromessi (sia pure per propria scelta) significa dover mettere in conto un periodo di morte civile. Una sentenza non sfavorevole in Cassazione potrà riaprire, ad Errani, le porte di un altro incarico, ma la sua funzione di leader autorevole è tramontata per sempre.

Così, il Pd, nella regione che ne rappresenta la retrovia più importante, volterà definitivamente pagina, avvalendosi di quel ricambio generazionale che è il passepartout del renzismo. Si consumerà il rito delle primarie per decidere chi, tra i proconsoli del premier-ragazzino (siano essi ‘’antemarcia’’ o ‘’neoarrivi’’) dovrà avere riconosciuta la primogenitura. Venuto meno il ballon d’essai del ministro Giuliano Poletti, la sfida si giocherà tutta nel campo dei giovani democrat ; le opposizioni di centro destra dimostreranno ancora una volta la loro inconsistenza, mentre il M5s compirà un ulteriore passo verso il  declino.  Ma saprà il Pd darsi  quelle motivazioni politiche che consentiranno ad un nuovo gruppo dirigente di mantenere quel potere che il vecchio apparato ex Pci gli consegna, ridimensionato ed ammaccato, ma ancora solido ? Se ve ne fossero ancora la cultura, l’abitudine e la capacità si dovrebbe partire – come si faceva un tempo -  dall’analisi.

L’Emilia Romagna rimane, nonostante gli effetti della crisi,  una delle regioni più ricche, organizzate ed attrezzate del mondo sviluppato. I  suoi punti di forza sono: a) la diversificazione produttiva, nel senso che  coesistono importanti insediamenti e attività in grado di coprire un ampio ventaglio merceologico, sia con  un’alta capacità di integrazione (tipico è il caso dei distretti industriali), sia con  una qualificata specializzazione (ad esempio, la zona delle ceramiche, il turismo, l’industria alimentare e quant’altro); b) un’ elevata sinergia tra diversi tipi di impresa, con un netto prevalere di un tessuto di imprese piccole e medie assai qualificate, inserite in circuiti organizzati e fortemente proiettate sul terreno dell’export; c) un terziario efficiente in grado di fornire servizi adeguati; d) una tenuta dell’occupazione anche femminile; e) una struttura portante che poggia sul lavoro autonomo; f) una pubblica amministrazione che ha bene impiegato le risorse consistenti avute a disposizione negli anni passati, creando una rete di servizi pubblici molto estesa che ha accompagnato la crescita economica e lo sviluppo produttivo, temperandone le inevitabili contraddizioni; g) una qualità sociale, autonoma e solidale che emerge nei momenti di grande difficoltà, come si è potuto constatare in occasione del terremoto. Insomma, la regione, intesa come comunità, è stata il laboratorio – per tanti motivi – di un ‘’compromesso socialdemocratico’’ di alto livello: grazie ai flussi di spesa pubblica, le amministrazioni hanno potuto contenere le contraddizioni sociali e favorire un grande sforzo comunitario di laboriosità, impegno e dedizione al lavoro.

Ma è proprio questo ‘’compromesso’’ che oggi non tiene più e che è entrato ovunque in crisi:

a) Le convenienze classiche del “modello emiliano” sono praticamente esaurite, in quanto fondate su flussi di spesa pubblica già abbondanti in passato, ora in via di riduzione per effetto delle politiche di risanamento finanziario in cui è impegnato il Paese;

b) a fronte dei cambiamenti in atto e a quelli che si annunciano vanno affrontati con decisione i temi attinenti alla popolazione (che in larga misura si saldano, da un lato, con gli aspetti del declino demografico, dall’altro, con gli ingenti flussi immigratori), e all’architrave  dello sviluppo dei prossimi decenni, assolutamente dipendente da un ridisegno delle infrastrutture portanti del territorio regionale, la cui inadeguatezza è la causa prevalente del rischio di declino economico e sociale, mentre potrebbe esserne il volano di un nuovo modello di sviluppo, proprio per la collocazione fisico-geografica che la regione vanta in Italia e in Europa;

c) la sicurezza (intesa come tranquillità e incolumità personale, salvaguardia della propria libertà di circolazione e dei propri averi e beni) è ormai divenuta una prioritaria esigenza di un sistema democratico, a cui anche il contesto regionale e delle autonomie locali non può sottrarsi nel portare avanti un proprio progetto di iniziative.

La Sinistra non è in grado di affrontare tali cambiamenti, perché ne è impedita dal suo blocco sociale di riferimento, il quale non è capace di uscire dal tradizionale “modello”: alta fiscalità, alta spesa pubblica, forte presenza dell’amministrazione pubblica, estesa protezione sociale, eccesso di regolamentazione e di concertazione. Fino ad oggi, sia la Regione, sia gli enti locali emiliano-romagnoli, piuttosto che adottare  modifiche importanti della tradizionale linea di condotta  hanno preferito resistere, stringere la cinghia, ma salvare tutto. Nella speranza che, prima o poi, si faccia ritorno ad un uso salvifico delle finanze pubbliche. In questa difesa dell’esistente la Sinistra è avvantaggiata per l’assenza, nel centro destra, di un progetto alternativo. Ma l’economia ha delle ragioni che la politica, prima o poi, sarà costretta a subire.

domenica 20 luglio 2014

piccolo è bello?


E’ da quando raggiunsi la maggiore età che evito per quanto possibile di abitare in città, dove pure sono nato e cresciuto. Amo la natura in modo sensuale, tanto che nonostante una vita piuttosto zingara ho abitato quasi sempre in situazioni quasi estreme di mare o di campagna.

Tuttavia a differenza, credo, dei tanti che hanno preferenze simili alle mie, io amo anche la città, purché grande; amo buttarmici dentro con voluttà ogni qualvolta vengo assalito da irresistibili pulsioni comunitaristiche come trovare in un’unica caotica strada le cartucce per la stampante, i miei Levi’s 501 nuovi a sostituire quelli di vent’anni fa, quell’introvabile punta di trapano per vetro e ceramica, le batterie per l’auricolare Amplifon, le scarpe…..no, le scarpe da uomo taglia 39 no, ormai le portano solo i cinesi, le trovo solo da Decathlon, fuori città (molto). Il tutto senza che uno che non ti ricordi chi è ti riconosca e ti blocchi per mezz’ora in quella strada puzzolente per sapere come hai passato l’ultima settimana.
Per un tuffo tra i vecchi amici invece a volte mi tocca attraversare tutta la città, e perfino questo trovo quasi emozionante, naturalmente non oltre un paio di volte l’anno. E poi via di corsa, rinunciando senza alcun rimpianto a cinema, concerto, movida e quant’altro, verso il mio eremo da cui monitorare mondo e umanità senza il fragore del superfluo.

Quello che invece non riesco proprio ad amare è il piccolo centro abitato, quello in cui tutti si conoscono senza conoscersi, costretti come sono a indossare maschere come artifici a difesa della propria intimità assediata. Potresti pensare “peggio per loro, io che c’entro?”, ma è un’ingenuità razionalista. Potresti mostrarti per quello che sei, nella tua integrità, in pratica un diverso, un marziano da apartheid; ma non potresti evitare, passando per la via o rispondendo al saluto cortese del vicino o del conoscente, di vedere o ascoltare immagini e pensieri che ti fanno accapponare la pelle, quasi che abbiano il potere di azzerare tutte le fatiche (e ce ne vogliono) da te fatte per continuare ad amare l’umanità.

Eccone un esempio. Questa è la bella piastrella di ceramica che fa bella mostra di sé all’entrata di un’abitazione niente male in un centro niente male di settemila anime:


A prescindere dal suo aspetto estetico, da quando ho riflettuto su tale asserzione, anche senza leggere io non riesco più a passare davanti a quella casa senza rabbrividire. E’ come se sentissi minacciati decenni di duro lavoro interiore fatto per liberare il mio essere dalla sudditanza agli “altri”, alle loro opinioni, alla loro invasività.

Ma soprattutto mi angoscia pensare a quale livello d’infelicità può portare il “conoscersi tutti”- trasformato in “controllo sociale” nel piccolo mondo chiuso - per ridurre una persona a fare della (presunta, di solito) invidia altrui una motivazione tanto importante nella propria vita da richiedere o addirittura da suscitare una forza uguale e contraria, in un avvitamento di cattivi sentimenti capace di smentire ogni utopia sulla solidarietà nel “piccolo è bello”.

martedì 15 luglio 2014

youth, il tesoro scomparso



 Quando scrivo sono prolisso. Invidio coloro, rari in verità, che sono capaci di donare sensazioni, scoperte o riflessioni preziose con una manciata di parole. Ne faccio un esempio, tra i migliori:

“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.”

Ma con un’altra manciata di parole il suo autore realizzò un prodigio, e trasformò quelle parole in diamanti:

“Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. E’ duro imparare la propria parte nel mondo”.

Era il 1931 e Paul Nizan, sull’orlo di quella vertigine che è la vita, brandendo la sua penna come una bacchetta magica,  aveva dato al mondo quel tesoro antiluogocomunista!
   “Aden Arabia” poteva e doveva finire lì, alla sesta riga, avendo detto tutto su generazioni di giovani da allora ad oggi, e forse da sempre e per l’eternità, e Paul avrebbe avuto il suo seggio tra i fari del sapere umano.
   Invece, forse accecato da tanto bagliore, terrorizzato dalla sua scoperta, straziato dalla sua età, Paul cercò salvezza nell’Ideologia, quella droga che ti libera dalla paura trasformandola in odio, e continuò a scrivere, a scrivere, fino a seppellire quel tesoro sotto strati geoideologici di vane parole.
   Paul Nizan morì due volte: nel 1939 a lui, comunista, il patto Molotov-Ribbentrop tolse la droga e l’anima; nel 1940 il piombo tedesco tolse il corpo e quel che restava della sua vita.

Quel tesoro è ancora là sotto, praticamente sottratto al mondo. Solo pochi accaniti tombaroli, da allora, ebbero la fortuna di vederlo, ancora meno quelli che lo riconobbero. Ne incontrai un paio che lo andavano raccontando in giro, e furono trattati da ciarlatani.

E perciò eccoci qui, ancora  a sorbirci pistolotti sociologici sul disagio dei “giovani d’oggi” e dotte analisi sulle sue cause: tra queste ricordo personalmente la miseria nel 48, l’incomunicabilità nel 58, il consumismo nel 68, la repressione nel 78, il carrierismo nell’88, il pensiero unico nel 98, la scomparsa del futuro nel 2008, la disoccupazione sempre, la scomparsa della memoria MAI.

Paul, Paul, perché ci lasciasti? 
Eternamente tuo, felicemente invecchiato cercando verità,
Rottamatoio

Post scriptum - Non ci si illuda che l'arrivo della prima "generazione senza futuro" renda più visibile il tesoro di Nizan: ci vuole altro che una motivazione socio-economica per aprire occhi e menti.

sabato 26 aprile 2014

perché non sono francescano

   26apr2014 - Sono stati in molti a festeggiare il fatto che a seguire i due pontificati di Woitila Superstar e di Taliban Ratzinger sia finalmente arrivato al soglio pontificio Bergoglio, un uomo apparentemente semplice, tanto semplice da autoribattezzarsi Francesco. Io mi sono limitato ad un più sobrio sospiro di sollievo, fermamente convinto come sono dell'irrecuperabilità di ciò che a Francesco sta dietro e davanti: non alludo alla Religione, ma alla Chiesa Cattolica.
   A seguire riporterò letture e riflessioni a sostegno della mia convinzione che tale istituzione, non essenziale alla religione cui si ispira, sia destinata ad una inesorabile - e sia pur lentissima e altalenante - agonia, seguita dalla fine, sia nella forma che nella funzione storicamente ricoperta. Voglio cominciare con una riflessione di molto tempo fa, forse i primi anni '80 del secolo scorso, sulla tolleranza e sulla speranza.

   << ....E' una domanda che ho fatto anch'io (c'è ancora, l'inferno?) trovandomi recentemente a un convegno in cui cattolici e no si discuteva sul tema della speranza. Il convegno si svolgeva in campo cattolico; e affermazioni che appena quindici anni fa avrebbero fatto segnare di croce come di fronte a una manifestazione del Maligno ogni buon cattolico italiano, e magari scatenato la più massiccia insofferenza, venivano recepite senza batter ciglio e qualche volta con larga approvazione.
   Mi pareva di sognare. Ma alla meraviglia, man mano che si andava avanti, subentrava il dubbio, il dilemma: stavo assistendo al realizzarsi della tolleranza o all'avvento della confusione? Quella platea di preti, di professori, maestri e studenti delle rispettive associazioni cattoliche, avevano finalmente raggiunto l'umana e laica verità che Montaigne enunciava nella stupenda formula che "dopotutto significa dare un bel peso alle proprie opinioni se per esse si fa cuocere vivo un uomo", o semplicemente non avevano più opinioni?
   Che il mondo cattolico, di cui il convegno offriva una sezione sufficientemente rappresentativa, avesse rinunciato a usare "il Crocifisso come corpo contundente" (così Gide a Claudel, in quell'epistolario da cui Gide vien fuori infinitamente più cristiano di Claudel) mi pareva e mi pare un fatto positivo e rallegrante; ma a patto che il Crocifisso, finendo di essere un'arma, sia una presenza viva e inquietante, una passione, una "agonia". L'agonia di Pascal: "Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo; e sino allora non si potrà più dormire"; l'agonia di Unamuno.
   Ecco: la fine del mondo. Ma non se ne parlava. Ecco: la morte. Ma in due giorni non ho mai sentito questa parola cadere, anche incidentalmente, nei discorsi che si sono fatti. E a dire che i discorsi prevalentemente si muovevano su un piano teologico, dottrinario, esegetico. Ma forse appunto per questo.
   E sarà magari, la mia, dall'esterno, una domanda reazionaria (quasi tutte le domande cominciano ad esserlo): ma che cosa resta del Cristianesimo senza il pensiero della morte, della fine del mondo? Soltanto una ideologia del pauperismo abbastanza confusa, abbastanza contraddittoria. Tanto confusa, tanto contraddittoria, che coloro che la professano dimenticando la morte e la fine del mondo, ansiosamente tendono a fonderla in altra più precisa, più conseguente, più "scientifica" ideologia >>

   <<Ovviamente che i cattolici voltino le spalle alla contemplazione della morte e della fine del mondo, che aboliscano i divieti e sconnettano le repressioni, non me ne importa poi molto. Ma certi effetti che ne discendono mi inquietano e mi preoccupano. E per esempio: la frenetica corsa alle "scienze" sociologiche. E mi ha dato apprensione, ed ha aggiunto timori e dubbi a quelli che già avevo, il fatto che un'assemblea di cattolici non ha reagito all'affermazione che "la Chiesa è contro la speranza", mentre si è agitata alla citazione di quelle due battute tra un deputato cattolico e un deputato laico che Anatole France riporta nel suo - da noi poco noto - opuscolo "L'église et la République": "Ammettete che la religione è d'ordine privato, di coscienza individuale, e ci intenderemo facilmente sul resto", dice il laico. "Mai! Capite? Mai! La religione cattolica, d'ordine privato? D'ordine sociale, signore, d'ordine sociale e di autorità", risponde il cattolico.
   Chi citava le battute di Anatole France pensava che la prima dovesse ormai suonare senza scandalo. E invece, se non proprio scandalo, un certo allarme ancora lo suscitava.>>                                  Leonardo Sciascia, Nero su Nero, Einaudi ed.

26apr2014 - A proposito dell'opinione di molti cattolici e della quasi totalità della Curia (e della totalità degli "atei devoti") circa la missione "d'ordine sociale e d'autorità" - cioè politica - della Chiesa Cattolica, e della tentazione di fonderla con quella ben più strutturata di un particolare partito politico, riporto una testimonianza riportata da Sciascia su un episodio del 1968, dopo il tragico terremoto del Belice.
   <<A Montevago, a Santa Ninfa, qualche giorno dopo il terremoto, la gente quasi aveva dimenticato l'orrore di quella notte e ormai soltanto si lamentava della disorganizzazione, delle storture e lungaggini burocratiche, delle infami speculazioni che già sorgevano. Raccontava episodi, faceva nomi. Ad ogni nome di burocrate incapace, di politico speculatore, un tale vestito di scuro, magro, d'accento settentrionale, rivolgendosi a chi dalla faccia e dai vestiti gli pareva non fosse del luogo, domandava: "Ma perché non lo linciano?" col tono meravigliato di chi scopre che una cosa del tutto ovvia in Lombardia o in Toscana, in Sicilia non si praticava. Mi dava un po' fastidio. Ho domandato chi fosse. Ebbene, era un prete.>>
                                                          Leonardo Sciascia, Nero su Nero, Einaudi ed.

domenica 20 aprile 2014

una storia italiana, la banalità del male

UNA STORIA ITALIANA: infinita, senza mostri. E’ solo LA BANALITA’ DEL MALE

Per giudicare la civiltà del tuo paese devi visitare le sue carceri, come consigliava Voltaire. Questo qui presentato è solo un piccolo tratto di una storia infinita di barbarie che continua a perpetuarsi per la refrattarietà dei Governi e del senso comune, nel paese della Controriforma, alla lezione di tolleranza dell’Illuminismo.

09 ottobre 2013
L’abisso delle prigioni
Adriano Sofri – La Repubblica

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l'opinione. Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l'ha fatto?

Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato  -  lui, non io  -  il giorno di Natale del 2005, a una "marcia per l'amnistia" indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant'anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, "senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari...".

Continuo a immaginare che cosa dev'essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una "questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile". Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta "a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere". Citò "i più clamorosi fenomeni degenerativi  -  in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti  -  e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento". Parlò di "una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana  -  fino all'impulso a togliersi la vita  -  di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile  -  che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora". (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: "Evidente è l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale... È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo...". E concluse: "Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss'altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte".

Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che un'iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione per ribadirla. Qualche tempo fa, all'uscita da una visita a San Vittore, a Marco Cappato che lo interpellava sull'amnistia, rispose: "Se mi fosse toccato mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte". Berlusconi stava ancora così e così.

Napolitano si sarà ricordato tutto questo. Intanto l'Europa ci condannava ripetutamente, e l'Italia, che lui supremamente rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: "Mentre lasciavo il Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque il filo. L'ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le scadenze tassative cui ci obbliga l'Europa, e, più irreparabile ancora, per la nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi (che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n. d. r.) e assicurare 'l'impunità delle caste', se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella delle carceri".

Cinque anni fa, quando fu varato un indulto mutilato dell'amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov'era, in un comodo domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo all'Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva. Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po' per uno.

Considerando tutti questi precedenti, Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po' lungo il suo messaggio, lo sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c'entra più. È sovrano il Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi è favorevole all'amnistia perché spera che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all'amnistia perché teme che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato che ci sia chi rifletta perché è in pena per l'inferno in cui stanno i carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella seconda).

Ecco, penso che sia andata più o meno così. Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto d'interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia. Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.



La pillola de
“IL ROVESCIO DEL DIRITTO”
di Giandomenico Caiazza
Radio Radicale, Venerdì 1 Marzo 2014

     Martedì prossimo la Camera dei Deputati discute finalmente del messaggio del Presidente della Repubblica sul tema carceri, paralisi della giustizia penale e possibili soluzioni, tra le quali in primis l’amnistia e l’indulto. La serietà della discussione sarà direttamente proporzionale alla conoscenza della realtà dei problemi e cioè alla consapevolezza che il tema in discussione non è solo quello pur cruciale del sovraffollamento delle carceri ma ancor prima forse quello non meno strutturale dell’enorme mole di procedimenti penali che il sistema molto semplicemente non è in grado di gestire.

     Mi chiedo se i nostri parlamentari siano a conoscenza del fatto che l’ingovernabilità dell’arretrato è nella maggior parte degli uffici giudiziari italiani talmente paralizzante da aver determinato l’adozione di numerosi provvedimenti organizzativi costituenti una vera e propria affermazione di discrezionalità dell’azione penale. Una discrezionalità che nei fatti si traduce, come ben scritto in un documento critico adottato pochi giorni fa dalle Camere Penali dell’Emilia Romagna, nell’esercizio di una sorta di potere legislativo e comunque di clemenza giudiziaria locale priva di legittimazione.

     I penalisti dell’Emilia Romagna reagivano con quel documento a due circolari, rispettivamente del Tribunale e della Corte d’Appello di Bologna con le quali, muovendo dalla presa d’atto di una quantità di arretrato semplicemente ingestibile, si fissava il criterio che in relazione a quei procedimenti aventi ad oggetto reati giudicati di minor allarme sociale, rispetto ai quali i termini massimi di prescrizione siano calcolabili entro i successivi quindici mesi, fosse non solo legittimo ma addirittura indicata la mancata fissazione o l’abbandono della loro definizione. Piuttosto che ingolfare tutta la macchina giudiziaria, pregiudicando anche procedimenti definibili nei due gradi di giudizio entro i termini massimi di prescrizione, tanto vale, questo è il succo di quelle circolari, lasciar morire quelli destinati a prescrizione sicura.

     Non è una novità: diversi anni fa fu l’allora procuratore della Repubblica di Torino Marcello Maddalena a stabilire, dopo l’adozione dell’ultimo procedimento di indulto, che si potevano abbandonare i procedimenti penali con reati “indultati, attesa”, si sosteneva, “l’inutilità della celebrazione del processo” e così smaltendo il soffocante arretrato. Anche allora si fece notare l’arbitrarietà di una simile determinazione, non solo avuto riguardo al principio di obbligatorietà dell’azione penale ed alla sostanziale autoattribuzione di potestà proprie semmai del potere legislativo, ma soprattutto per l’inaccettabilità dell’idea di “processo inutile” ad essa sotteso. Affermare infatti che un processo penale sarebbe inutile se destinato ad irrogare una pena che già sappiamo essere coperta da indulto presuppone di escludere l’esito assolutorio dal novero delle utilità del processo stesso; il che la dice lunga sull’idea del processo penale che animava quella circolare, prontamente santificata dalla plaudente approvazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura.

     Quest’ultimo d’altronde ha dato la stura a questo genere di provvedimenti, poi adottati a livello locale da diversi tribunali, preventivamente legittimandoli, con una serie di delibere (la prima risale al 13 dicembre del 2008) con le quali si è affermata in sostanza la legittimità di questa macroscopica deroga al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. Le acrobazie, ma sarebbe meglio dire le ipocrisie dialettiche di tali determinazioni, tutte tese a dimostrare l’indimostrabile, e cioè che non si violasse con esse il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale e di riserva al Parlamento del potere legislativo, potrebbero costituire un’utile lettura e un buon viatico per chi vorrà esprimersi con cognizione di causa sui temi posti dal Capo dello Stato.

Occorre insomma comprendere che l’alternativa all’amnistia, dunque ad un provvedimento di natura legislativa valido erga omnes e non rimesso alle discrezionali e differenti determinazioni di questo o di quel tribunale, è proprio questa assurda ed inammissibile autoattribuzione da parte della magistratura italiana di un uso arbitrario dello strumento della prescrizione per ottenere lo stesso risultato dell’aborrito provvedimento clemenziale, ma con violazione del principio di eguaglianza oltre che del principio di separazione dei poteri giudiziario e legislativo.

     Chi dice no all’amnistia si interroghi se abbia senso continuare a dire si, facendo finta di non sapere, a provvedimenti come quello del Tribunale di Bologna dove si legge che “non sono da ritenere di trattazione prioritaria, fatta eccezione per quelli di particolare rilievi ed allarme sociale, i processi per i quali la scadenza del termine massimo di prescrizione dei reati che ne formano oggetto segua la pronuncia della sentenza di primo grado in misura almeno pari a quindici mesi, e ciò sul presupposto, come precedente affermato dalla Corte di Appello bolognese, che le sezioni della Corte non sono assolutamente in grado di far fronte con tempestività al proprio carico di lavoro essendo per altro del tutto prevedibile anche in riferimento all’esperienza degli anni passati la prosecuzione pure nel futuro di tale negativo fenomeno nella sua entità”.
     Questi i termini nudi e crudi del problema; il resto è fuffa, chiacchiere senza senso, demagogia populista e soprattutto fuga assai poco decorosa dalla propria responsabilità di legislatori.



Il dibattito sulle carceri nell’Aula semivuota
Giovanni Bianconi - Corriere della Sera 05/03/14

A inizio seduta sono meno di trenta, neanche il 5 per cento. Col passare dei minuti diventano una sessantina: non più del dieci per cento dei deputati a discutere il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica sull’emergenza carceraria. Il ministro della Giustizia Orlando è impegnato a Bruxelles, ha mandato il suo vice Costa e il sottosegretario Ferri. Ci sono voluti cinque mesi e due rinvii per arrivare al dibattito su quella che il capo dello Stato definì «questione scottante, da affrontare in tempi stretti»; e quando finalmente è il momento l’interesse dei rappresentanti del popolo si mostra poco al di sopra dello zero. Come se il problema non fosse più un problema, a dispetto del messaggio di Napolitano e di quello che la stessa presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti illustra nella sua relazione; come se il decreto «svuota-carceri» approvato a fine febbraio avesse chiuso la questione. Invece quel provvedimento ha svuotato ben poco, e nelle duecento prigioni d’Italia sono tuttora rinchiusi oltre 62.000 detenuti, 15.000 in più rispetto ai posti disponibili.
Altre risposte sarebbero necessarie per adempiere l’«imperativo giuridico, politico e morale» ricordato dal Quirinale, ma l’amnistia e l’indulto indicati da Napolitano come estremo rimedio a una situazione estrema restano un tabù. Alla fine i deputati votano una risoluzione che li auto-assolve, perché certifica che «il Parlamento non è stato con le mani in mano», e si affida a riforme future. Il resto delle tre ore e mezzo si consuma tra scaramucce politiche sul passato, contrapposizioni frontali del presente e divisioni nell’inquieto Partito democratico, che risentono dell’approdo di Renzi a palazzo Chigi. Quando il capo dello Stato inviò il suo messaggio, l’attuale segretario premier era il candidato favorito alle primarie del Pd, e dette un giudizio tanto sferzante quanto definitivo sulla proposta di amnistia e indulto: «Non è seria, non è educativa, non è responsabile». E soprattutto «sarebbe un clamoroso autogol» in termini di immagine e consensi. Cinque mesi dopo Renzi ha conquistato il Pd e il governo, gli equilibri interni sono cambiati e la nuova responsabile Giustizia del partito, Alessia Morani, spiega che atti di clemenza «non servono, sarebbero solo l’alibi per una politica che non vuole scegliere né prendersi responsabilità».
Ma a sorpresa il suo predecessore Danilo Leva, che si occupava di giustizia per conto di Bersani e Epifani, ribatte nell’Aula nel frattempo arrivata a contare un centinaio di presenze (sempre sotto il 20 per cento) che è giunto il momento di «discutere di un provvedimento straordinario». Lo stesso che appena cinque mesi fa, quando rappresentava la maggioranza nel partito, considerava ipotesi da prendere in considerazione «solo come punto di approdo di una riforma del sistema delle pene». Che non c’è stata; dev’essere per qualche altro motivo contingente che ha cambiato idea. Al passato si aggrappa invece Fabrizio Cicchitto, ex Pdl passato col Ncd di Alfano, invitando tutti all’autocritica «perché non abbiamo fatto le riforme necessarie, bloccati dallo scontro permanente in materia di giustizia». Dovuto, ammette con candore, «alle leggi ad personam» in favore di Berlusconi, varate però come risposta «a certe sentenze ad personam». Come se le sentenze non siano sempre e comunque ad personam, fondate sulla responsabilità dei singoli imputati. L’oratore di Forza Italia invoca la fine della «guerra fredda tra magistratura e politica»; che cosa c’entri col sovraffollamento delle carceri non è chiaro. I seguaci di Grillo si distraggono da computer e telefonini solo quando parlano i loro rappresentanti, i quali colgono l’occasione per nuovi attacchi al presidente della Repubblica. I leghisti invocano più carceri, mentre l’opposizione vendoliana denuncia che s’è messa la pietra tombale sull’unico provvedimento utile nell’immediato.
Ne sono consapevoli tutti, compresi i radicali che fuori, sotto la pioggia, continuano a invocare amnistia e indulto «per uscire dall’illegalità». Al momento del voto le presenze sono diventate 474, ma quasi nessuno ascolta l’ultimo intervento, del democratico Verini. E chi volesse non ce la farebbe, poiché la voce del deputato è quasi completamente coperta dal brusio delle chiacchiere di tutti gli altri, al punto che il vice-presidente grillino Di Maio è costretto a richiamare i colleghi all’ordine: «Non riesco a sentire». Ma è pressoché inutile. Qualche applauso di circostanza chiude il dibattito. La risoluzione che approva la relazione iniziale passa con 325 sì e 107 no, gli altri o si astengono o non votano. La pratica «emergenza carceri», per il momento, è archiviata.



Bordin Line
di Massimo Bordin
Il Foglio, 6 Marzo 2014

   Vi ricordate “il Parlamento degli inquisiti” nella legislatura iniziata nel 1992 e interrottasi due anni dopo? Quando fioccavano le dimissioni dal governo sulla base di un semplice avviso di garanzia? La sinistra e il suo principale partito seguirono e subito si posero alla guida di quella ventata anti parlamentare. La logica che demandava alle procure la formazione dei governi e dei parlamenti ha costituito da allora un caposaldo della linea istituzionale di quel partito. Fino a ieri.

   La dichiarazione del ministro Boschi che annuncia che il governo non ha nessuna intenzione di chiedere dimissioni sulla base di un semplice atto dovuto per l’avvio di un’indagine è una dichiarazione che segna una svolta. Come al solito ci sono voluti vent’anni e c’è qualcuno che rifiuta di adeguarsi alle novità. Nel 1956 era stato Concetto Marchesi, oggi è Livia Turco e anche questo è un segno dei tempi. Ma non è questo il problema, e non lo è nemmeno la contraddizione sul caso Barracciu, cui fu chiesto un passo indietro dalla candidatura alla regione Sardegna per poi proporla come sottosegretaria.

   La contraddizione patente sta nel ruolo decisivo del PD due giorni fa alla Camera nel far cadere nel nulla, come voleva il blocco dei forcaioli, il messaggio al Parlamento del presidente Napolitano. La “svolta” dunque riguarda gli abitanti delle istituzioni, e ciò è comunque un bene, ma lascia fuori i dannati delle carceri. E questo, per un partito della sinistra, un bene non è.


Giustizia: Parlamento vuoto e sprezzante sul messaggio di Napolitano, vergogna renziana
di Giuliano Ferrara, Il Foglio 6 marzo 2014

Il 5 per cento dei parlamentari presenti a inizio seduta, poi il 10 per cento col passare dei minuti (cioè una sessantina di persone in tutto), e solo alla fine l'ingresso in forze per votare: secondo la cronaca del Corriere della Sera, questo è il livello dell'attenzione dedicata due giorni fa dal Parlamento al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al tema della giustizia in Italia.
Uno sgarbo istituzionale, senza dubbio, considerato che Napolitano, cinque mesi fa, si era spinto fino a resuscitare una pratica prevista dalla Costituzione e inutilizzata per oltre un decennio, quella del messaggio alle Camere. Quest'ultimo, secondo il Quirinale, era il modo più solenne per spingere l'Aula a occuparsi della situazione della giustizia del nostro paese, anche meglio di decine di dichiarazioni pubbliche o televisive. In quell'occasione Napolitano aveva fatto pure chiarezza su un punto decisivo: la situazione delle carceri italiane è ributtante (62 mila detenuti, 15 mila in più dei posti disponibili), ma il metro di giudizio umanitario non basta più; l'Italia, in ragione della lunghezza dei processi, è fuori legge rispetto agli standard del diritto internazionale che noi stessi recepiamo in Costituzione.
Napolitano perciò aveva parlato di "obbligo" che le istituzioni avrebbero di sanare l'attuale situazione, non più soltanto di un loro "dovere". Il Parlamento, due giorni fa, ha confermato di non pensarla così: una mozione piena di buone intenzioni non si nega a nessuno, ma il senso d'urgenza impresso da Napolitano - e da sparute minoranze extraparlamentari come i Radicali - è completamente scomparso dal dibattito.
I parlamentari hanno fatto a gara per prendere le distanze dalle misure di clemenza possibili e sempre più necessarie, indulto e amnistia; il segnale più inquietante è arrivato dal Pd a conduzione renziana, dalle dichiarazioni un po' qualunquistiche della responsabile Giustizia Alessia Morani (per la quale gli atti di clemenza "sarebbero solo un alibi per una politica che non vuole scegliere"), dalla saldatura cioè di forze progressiste e soliti manettari (grillini e leghisti). Sgarbo istituzionale, dunque, e sgarbo al buon senso. A richiamarci alla realtà, forse troppo tardi, saranno gli investitori sempre più sfiduciati dalle nostre istituzioni, e poi le multe europee in arrivo da fine maggio. Allora il Parlamento dovrà scegliere per davvero.


La pillola de
“IL ROVESCIO DEL DIRITTO”
di Giandomenico Caiazza
Radio Radicale, Venerdì 8 Marzo 2004

     La settimana scorsa avevo con allarme raccontato di due circolari, adottate dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Bologna, con le quali i vertici di quegli uffici giudiziari, preso atto della materiale impossibilità di gestire il carico di lavoro rinveniente dalle azioni penali esercitate dall’Ufficio di Procura, fissavano criteri dichiaratamente discrezionali nella trattazione dei processi, selezionandoli secondo criteri d’importanza autodeterminati e di fatto autorizzando che gli altri procedimenti fossero lasciando che fossero lasciati al proprio destino di morte per prescrizione.
     Ieri il Corriere della Sera pubblica con enorme risalto un meritorio e come sempre puntualissimo articolo di Giovanni Bianconi che racconta la medesima
vicenda questa volta riguardante però nientedimeno il Tribunale e la Procura della Repubblica di Roma. Fatti due conti, cioè calcolato il numero di processi che annualmente rimangono inevasi rispetto alle richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla Procura, il presidente del Tribunale di Roma ha fissato un numero fisso di processi da trattare, anche qui selezionati secondo criteri di rilevanza e gravità legati al titolo di reato. Quindi gli eccedenti finiscono in un ufficio che sembra partorito da una mente letteraria a metà strada tra Orwell e Kafka: si chiama SDAS, acronimo che sta per “Sezione Definizione Affari Seriali”, qualunque cosa ciò possa realmente significare.
     Chissà se ora che la questione è andata ben oltre i limiti angusti di questa piccola rubrica approdando alla prima pagina del Corriere della Sera, magari qualcuno si svegli dal torpore della propria crassa ignoranza o dalla vergogna della propria cinica demagogia; per esempio interrogandosi se l’aver mandato pressoché deserto il dibattito il messaggio del Capo dello Stato sulla necessità di provvedimenti urgenti per tamponare la bancarotta della giustizia e del diritto del nostro paese non sia stata, oltre che una delle pagine più avvilenti     della nostra storia politica e parlamentare, una formidabile occasione perduta. Sappiamo tutti che il tema in discussione non era e non è solo quello pur drammatico e pressante del sovraffollamento delle carceri ma ancor prima quello della paralisi della macchina giudiziaria che nessuna riforma potrà miracolare senza che prima vengano, con provvedimento eccezionale ed urgente, liberati gli scaffali polverosi degli uffici giudiziari italiani, strangolati da carenze strutturali drammatiche oltre che dal culto quasi mistico di una obbligatorietà dell’azione penale che da molti decenni è tale solo sulla Carta Costituzionale ma certamente non nella realtà, come appunto dimostrano queste circolari auto-organizzative di questo o quell’ufficio giudiziario.
     Che un provvedimento di amnistia costituisca una resa dello Stato, cioè il riconoscimento di un fallimento amministrativo è fuori discussione; che insomma sia del tutto impopolare l’idea che uno stato, preso atto di non essere in grado di processare tutti coloro nei confronti dei quali venga esercitata l’azione penale e di non essere in grado di far eseguire le pene detentive irrogate in condizioni di minimo rispetto della dignità umana, rinunci a processare e a punire intere categorie di reati, è parimenti indiscutibile. Ma quando ciò avviene lo stesso, e nella forma più inaccettabile e cioè o per mera casualità o per determinazioni come quelle delle quali stiamo parlando, assunte da uffici giudiziari che non ne hanno nessuna legittimazione in termini funzionali e di equilibri costituzionali, ecco che l’inerzia pavida, cinica, irresponsabile del legislatore assume i caratteri di una imperdonabile e per certi versi epocale gravità.
     Piuttosto che assumersi le responsabilità che il mandato elettorale gli attribuisce il legislatore preferisce fare la faccia feroce del coniglio mannaro sapendo che essa paga elettoralmente: “lo Stato non cede, niente amnistia, niente indulto….”, e pazienza se l’amnistia venga allora decisa dai singoli uffici giudiziari, e secondo i criteri da questi discrezionalmente fissati piuttosto che da quel legislatore pavido e cinico che non sente, non vede e non sente e parla a vanvera di fermezza e blablabla. Che ci pensino le SDAS a fare il lavoro sporco. Parlamento e Governo intanto faranno a gara a non far capire agli elettori cosa significano davvero quelle questioni; e cioè la definitiva, ufficiale abdicazione del legislatore, per ordine della Corte d’Appello di Bologna piuttosto che del Tribunale o della Procura della Repubblica di Roma, dal legiferare in materia di giustizia. E d’altronde non bisognava forse cambiare verso?



Disgrazia e Ingiustizia
di Marco Travaglio – IL FATTO, 09 marzo 2014

Una notizia buona e una cattiva. Prima la cattiva: Renzi non ha le idee chiare sulla giustizia o se le ha le nasconde benissimo. Nel suo discorso di insediamento al Senato, ha riassunto la riforma pendente con questa supercazzola: “Sulla giustizia non possono esservi solo derby ideologici, la giustizia è un asset reale”. La buona notizia è che nella confusione renziana c’è un’eccezione: il no chiaro e netto ad amnistia e indulto. L’altro giorno, con cinque mesi di ritardo, i soliti quattro gatti hanno discusso alla camera il messaggio di Napolitano sul sovraffollamento delle carceri e sull’urgenza di provvedere prima di maggio, quando scatteranno le prime misure europee (1). I decreti svuota carceri Alfano, Severini, Cancellieri, come avevamo ampiamente previsto in beata solitudine (2), erano buffonate. La neo responsabile giustizia del PD, la renziana Alessia Morani, ha sbaraccato la linea dell’indulgenza plenaria lasciando soli NCD, Forza Italia e UDC a ululare alla luna il “liberi tutti!”; era ora!
Resta da capire quando arriverà la “pars construens” di edificare nuove carceri, riaprire il carcere dell’Asinara, ristrutturare caserme in disuso per recludere detenuti meno pericolosi, abolire il reato di clandestinità, rivedere la Bossi-Fini, applicarla nella parte che prevede di far scontare ai clandestini gli ultimi tre anni nei loro paesi (3), ma il fatto che il PD cambi rotta, e che dunque la maggioranza dei due terzi richiesta per amnistia e indulto non esista più è un’ottima novità, soprattutto per le vittime dei reati, in continuo aumento a causa della crisi (un articolo dell’Espresso parla di una casa svaligiata ogni due minuti), e finiscono così al museo della paleontologia i tromboni sinistri della decarcerazione che hanno fatto danno per vent’anni. Ancora l’altro giorno L’Unità pubblicava un comico saggio di Luigi Manconi che tenta pietosamente di difendere l’indulto del 2006, quello che per salvare Previti e Berlusconi mise fuori quasi trentamila delinquenti (4) e non ne fece entrare almeno altrettanti. La tesi, tenetevi forte, è questa: chi viene scarcerato al momento giusto torna a delinquere per il 68%, mentre i detenuti liberati anzitempo nel 2006 ci sono ricascati, o meglio sono stati beccati e riacciuffati, solo per il 34%, quindi l’indulto conviene e bisogna farne altri. Saranno felici le diecimila nuove vittime che non avrebbero subito alcun danno (5) se i loro diecimila persecutori fossero rimasti dentro a scontare la pena per intero. Poi uno si domanda perché il centrosinistra non vince mai (6).    (vedi anche nota 7)

Note critiche, o IL VALZER DELLE SETTE NOTE,
esercizio di senso critico del curatore di questa rassegna stampa, ovvero “come si legge un articolo di giornale”. T sta per Marco Travaglio.

Premessa: - La prima regola per un buon lettore di notizie è: cercare ciò che l’articolo NON dice; naturalmente “buon lettore” significa avere buona conoscenza e buona memoria. La seconda regola è avere (o fornirsi di) capacità critica e autocritica.

(1) – quello che T non dice è che il sovraffollamento delle carceri è un reato dei più gravi, consumato dallo Stato Italiano, cioè in nome di noi tutti, condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con multe e risarcimenti milionari in quanto torturatore in flagranza di reato. Che questo particolare maxi-delinquente sia in libertà costituisce la più vistosa contraddizione di T, che si batte come un leone affinché non esca di galera neppure un ladro di polli. Ma da giornalista avveduto si accorge che il 28 maggio scatteranno le sanzioni, cioè tanti quattrini da versare nelle tasche di condannati torturati, il che potrebbe far indignare gli italiani che dovranno pagarli; e allora si preoccupa, scaricando ogni colpa su tutti quegli ex ministri di giustizia a cui lui stesso ha impedito qualsiasi seria riforma;
(2) – infatti “svuotacarceri” fu il termine demagogico “stile bau! bau!” inventato e usato dalla stampa forcaiola di cui T è il massimo esponente per sparare a zero perfino contro quei provvedimenti pur minimi che non svuotavano un beneamato piffero; in beata solitudine a definirle buffonate furono solo i radicali;
(3) – non trovando di meglio per risolvere la flagranza di reato, T propone di spendere qualche miliardo dei nostri soldi per costruire nuove carceri, restaurarne di vecchie e trasformare caserme in carceri invece di venderle per creare posti di lavoro; poi cita qualche reato che si potrebbe anche depenalizzare con il contagocce, ma non dice una parola su quei reati riempicarceri che di solito non hanno parti lese (cioè vittime), tipo quelli “di droga” (legge Fini-Giovanardi);
(4) – l’indulto del 2006 fu concesso “obtorto collo” dal Parlamento dopo trent’anni di lotte radicali volte ad ottenere una riforma strutturale del sistema giustizia, ma solo per evitare sia la riforma che l’amnistia richiesta dalle più alte personalità della Repubblica e infine dal Pontefice in persona davanti al Parlamento: un papa berlusconiano!!!?
(5) – tra i trentamila indultati c’erano una gran parte che aveva già scontato quasi tutta la pena, perciò far intendere che i diecimila recidivi fossero usciti tre anni prima del “momento giusto” è un trucco da treccartaro; e lo conferma il fatto che T cita diecimila vittime quando sa benissimo che i reati più comuni di solito non producono vittime: clandestinità e tossicodipendenze in primis;
(6) – ed ecco emergere dal cappello del fustigatore della Casta l’apoteosi del senso comune partitocratico: scopo principe della politica è vincere le elezioni: e chi perde voti perché si preoccupa di avere uno Stato civile è un coglione!
(7) – dulcis in fundo, quello che T non dice: e cioè che il messaggio di Napolitano non richiamava solo il problema del sovraffollamento delle carceri, da affrontare con amnistia ed indulto, ma anche e soprattutto la riforma strutturale del Sistema Giustizia, a cominciare dall’eliminazione di quella incostituzionale discrezionalità dell’azione penale gestita dalla Magistratura mediane l’uso della prescrizione, una vera e propria amnistia annuale (media: 170.000 casi all’anno) concessa con criteri arbitrari e di legge disuguale per tutti dai vari Uffici Giudiziari, come ben descritto dall’Avv. Caiazza, con il pretesto dei troppi fascicoli che ingombrano le scrivanie dei magistrati. Ma per T guai se a buttare nel cestino quei fascicoli sia una scelta politica come nella maggior parte dei paesi democratici: è vietato dalla Costituzione più bella del mondo; della quale, evidentemente, solo i magistrati possono fregarsene. E neanche una parola sulla custodia cautelare (che non si ha più il coraggio di chiamare carcerazione preventiva, ma tale è), altro riempicarceri di cui si abusa per privare della libertà quel 50% di indagati che statisticamente al processo verranno dichiarati innocenti. So che tutti state pensando che a voi non può succedere. Esclusi quelli a cui è successo.




La vergogna dei suicidi in carcere
Di Augusto Parboni – Il Tempo, 10 marzo 2014

Commetti un reato? Vai in carcere. Non commetti un reato? Rischi di andare comunque dietro le sbarre. Sono sia colpevoli sia innocenti i detenuti che affollano i penitenziari d’Italia, dove devono scontare pene da lievi a vita. Tutti, comunque, devono fare i conti con le difficoltà di vivere in una cella di pochi metri quadri sovraffollate in condizioni igienico sanitarie e psicologiche al limite della sopportazione. Anzi, della sopravvivenza. Sì, perché non tutti riescono ad affrontare le drammatiche situazioni delle carcere italiane, il peso di trovarsi in galera senza un motivo, da innocenti, o i lunghi tempi della giustizia. Ma il risultato, sempre più spesso, è lo stesso: togliersi la vita. Non è cambiato nulla negli ultimi 5 mesi, da quando cioè sulle pagine de Il Tempo è stata denunciata la terribile escalation di vittime in cella, che ha raggiunto i duemila detenuti.
È allucinante il numero di uomini e donne che si uccidono nelle celle. Ed è un fenomeno che non sembra diminuire. Ma ad arrivare a compiere il gesto estremo non sono solo i detenuti, ma anche chi ogni giorno vive nelle carceri, come gli agenti penitenziari. Anche loro, infatti, a volte arrivano a suicidarsi.
Se si prendono in esame i numeri degli ultimi tre anni di detenuti morti in galera, diffusi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, insieme con Radicali italiani, le associazioni «Il detenuto ignoto», «Antigone», «Buon diritto», «Radiocarcere», «Ristretti orizzonti», c’è da chiedersi quando arriveranno soluzioni concrete per evitare che tragedie così continuino ad accadere. In poco più di 36 mesi, infatti, si sono tolti la vita 26 agenti e 188 detenuti. Per quanto riguarda le forze dell’ordine, l’età varia dai 32 fino a 54 anni. E i suicidi sono avvenuti da Torino ad Agrigento, da Napoli a Roma, da Trapani a Biella, da Aversa a Lecce, da Pordenone a Viterbo.
Ma se si prendono in considerazione invece le morti di detenuti, i numeri schizzano alle stelle e l’età minima scende fino ai 21 anni e arriva ai 73 anni. Una fascia molto più ampia dovuta alle inumane condizioni che devono affrontare i detenuti in quasi tutte le galere italiane. I gesti estremi sono avvenuti sia in celle con altri detenuti, sia in quelle d’isolamento. E le cause di morte sono anche differenti: la maggior parte delle persone sono decedute per impiccagione, poi per asfissia, per avvelenamento, dissanguamento, soffocamento e abbruciamento.
La percentuale di uomini che si uccidono raggiunge cifre enormi rispetto alle donne: negli ultimi tre anni, infatti, sono sei le donne «vittime» del carcere: quattro si sono impiccate, una è morta per asfissia e un’altra per soffocamento. Per quanto riguarda invece gli agenti penitenziari deceduti, ne sono morti due nel 2014, otto lo scorso anno, nove nel 2012 e otto nel 2011. I ruoli che ricoprivano andavano dall’assistente, all’assistente capo, dall’agente scelto all’ispettore. Un gesto estremo, nella maggior parte dei casi, nato proprio durante il proprio lavoro. In carcere. Lo stesso luogo che continua a far vittime anche tra chi deve scontare una pena. Giusta o ingiusta che sia.


Il no di Londra che boccia Sollicciano
Corriere della Sera – Cronaca di Firenze
18 marzo 2014

FIRENZE - Una decisione che già fissa, nel giro di pochi giorni, un precedente. L’11 marzo le Royal Courts of Justice di Londra hanno negato l’estradizione di Hayle Abdi Badre, cittadino somalo accusato dalla Procura di Firenze di violazione della direttiva europea sui servizi finanziari e che si trova in Inghilterra, perché è là che vive parte della sua larghissima famiglia. La Giustizia italiana non ha offerto adeguate garanzie sul trattamento che Badre — la cui attività era radicata anche a Firenze — avrebbe ricevuto nelle nostre prigioni.
LA SENTENZA EUROPEA - Le Royal Courts of Justice citano, fra le argomentazioni, la celebre sentenza pilota Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani l’anno scorso ha condannato lo Stato italiano per violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Il caso riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.
LA RISPOSTA DI FIRENZE - Il gip del Tribunale di Firenze David Monti il 5 luglio 2013 ha inviato una lettera al magistrato britannico di collegamento in Italia Sally Cullen in cui in poche righe liquidava il rischio maltrattamenti, dicendo che Badre, se tradotto in Italia, non sarebbe stato collocato negli istituti di Busto Arsizio e Piacenza, «dato che l’Italia può offrire una ampia gamma e scelta di istituti penitenziari». Peccato che il problema sia strutturale e infatti la giustificazione non ha convinto i giudici inglesi.
SOLLICCIANO - Badre forse sarebbe finito a Sollicciano, le cui pietose condizioni sono state raccontate e documentate anche da un reportage del Corriere Fiorentino il 15 dicembre 2013; Sollicciano ha quasi il doppio dei detenuti che è in grado di ospitare (ha una capienza di 480 prigionieri, di solito sono intorno a migliaio). L’Italia ha fino al 27 maggio per trovare una soluzione al problema strutturale del sovraffollamento nelle carceri. In caso contrario, arriveranno multe salate.
IL RADICALE - «La difesa del signor Badre — spiega l’ex senatore del Partito Radicale Marco Perduca, che ha seguito il caso fin dall’inizio — mi aveva chiesto di preparare un apprezzamento della situazione generale delle carceri italiane e un’analisi della mancanza di riforme a seguito della ‘‘sentenza pilota’’ adottata dalla Corte di Strasburgo nel gennaio 2013. La cosiddetta sentenza Torreggiani infatti chiede all’Italia di affrontare le strutturali violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, quello relativo ai trattamenti inumani e degradanti, imposti a migliaia di detenuti in violazione degli standard previsti dall’Ue e dal Consiglio d’Europa». La decisione delle Royal Courts di Londra contro la Procura di Firenze, dice Perduca, «potrebbe divenire un precedente per ogni altra richiesta di estradizione che l’Italia ha in giro per il mondo e dovrebbe essere tenuta di conto come un ulteriore monito, una denuncia del modo con cui le istituzioni italiane non rispettano i propri obblighi internazionali relativi alla Convenzione europea dei diritti umani e il Patto internazionale sui diritti civili e politici». Nei 205 istituti di pena italiani vivono oltre 60 mila detenuti, a fronte di una capienza fissata dal ministro Cancellieri intorno ai 42 mila.
GIA' UN PRECEDENTE - Comunque, la decisione delle Royal Courts di Londra ha già fissato un precedente. Proprio lunedì la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha deciso di non procedere all’estradizione in Italia di Domenico Rancadore, arrestato lo scorso agosto nella capitale britannica con l’accusa di mafia, dopo 19 anni di latitanza. Il giudice Howard Riddle ha spiegato che la sua decisione all’inizio era quella di dare il via libera all’estradizione, ma ha poi cambiato idea, basandosi proprio sul caso sul caso di Badre. Nella sentenza hanno pesato anche le precarie condizioni di salute di Rancadore, 65 anni, affetto da angina, e di recente ricoverato in ospedale. «Secondo noi — dice Perduca, fiorentino e vicepresidente del Partito Radicale — lo schiaffo delle Royal Courts è l’ultima ciliegina sulla torta marcia della giustizia italiana. Il premier Matteo Renzi è andato a Berlino a dire che noi non ci faremo mettere dietro la lavagna. Ma così ci daranno anche il cappello da ciuco in testa: il 27 maggio pioveranno multe, forse da milioni di euro». È ora insomma, dicono i Radicali, che il nuovo governo italiano si intesti questa battaglia di civiltà.


CONCLUSIONE

     In questa raccolta di (rari) interventi documentati sul tema Giustizia, pur non condividendoli al 100%, ho voluto inserire un solo articolo, quello di Marco Travaglio, che ha il pregio di dire, senza peli sulla lingua, quello che pensa, ammesso che pensi, la stragrande maggioranza degli italiani. Questa naturalmente è solo una mia opinione, ma è basata sulla costatazione che quasi tutti i “politici” (sic), basandosi su sondaggi oppure “a naso”, evitano accuratamente di discutere dell’argomento se non nell’ottica filo o anti berlusconiana; e quei pochi, come i radicali, che invece ne fanno una battaglia di civiltà da decenni sono ricambiati dall’elettorato con lo 0.24% dei voti validi alle ultime elezioni. Non che loro ne facciano un dramma, abituati come sono a FARE politica con o senza poltrone in parlamento; solo con molta fatica in più.
     Sia ben chiaro: io non penso che l’Italia sia popolata da decine di milioni di mostri. Grazie a Hannah Arendt  ( http://it.wikipedia.org/wiki/Hannah_Arendt#Le_opere ) e alle sue riflessioni sul processo al “mostro” nazista Adolf Eichmann (La Banalità del Male) ho imparato che i più grandi crimini contro l’umanità sono stati possibili grazie alla “normalità” della maggioranza…. dell’umanità, che “i tedeschi” degli anni ’30 erano persone tanto normali da essere banali, proprio come gli italiani, gli americani e i cinesi, o gli induisti, gli ebrei e i musulmani, magari un po’ più ligi al dovere di noi mediterranei, ugualmente amanti della famiglia, della tranquillità e della sicurezza. E perfino Adolf Hitler era vegetariano, amava i bambini e gli animali; ed era perfino giustamente indignato per come i vincitori della prima guerra mondiale avevano ridotto la Germania in tempo di pace.
     No, i mostri non esistono. Esiste la banalità del Male, che ci permette di osservarci allo specchio senza le apparenze dell’orco o del mostro; che ci impedisce di riconoscere subito quanta mostruosità è spesso prodotta dalle nostre banali aspirazioni all’agiatezza, alla tranquillità, alla sicurezza per noi e i nostri cari, perfino al meritato svago e riposo, alla spensieratezza; che ci impedisce di vederlo dietro i luoghi comuni liberatori tipo “se è dentro qualcosa avrà fatto” o “prima pensiamo alle persone per bene”; antropologicamente, tutto ciò è sintetizzato in una parola banalissima: pigrizia. Semplice e allucinante: la pigrizia mentale E’ il male.
     Intanto la partecipazione politica dei più si limita all’assistere a talk show televisivi in cui le opposte tifoserie si rinfacciano di tutto in risse da osteria rivaleggiando in audience con soporiferi telequiz da maggioranza silenziosa; in uno dei quali una sera, su quattro date già scritte (1948, 1984, 1979, 1933) solo l’ultimo concorrente, con titubanza, ha indovinato la data dell’ascesa al potere di Hitler. Su questo simbolo della smemoratezza la giornalista Stefania Rossini ha commentato: “Un nuovo Hitler può riaffacciarsi tranquillo: non sarà riconosciuto”. E se fosse già qui? Voi non ne vedete di indignati aspiranti fuhrer, in giro? Urlano elenchi di malefatte, quasi tutte vere, ma senza proporre altro che di sostituirsi agli attuali gestori del potere.

    A vederli e a sentirli mi ronza nella testa, per analogia, quanto sentito nella sua Sicilia e riportato in “Nero su nero” dal grande Leonardo Sciascia, a cui dedico questa modesta fatica:
    La pena mia non è che si rubi; è che io non mi ci trovo in mezzo”.