mercoledì 18 gennaio 2012

cultura senza conoscenza






La STAMPA 27/05/2011 - INTERVISTA

Vargas Llosa "Attenti 
agli spacciatori di cultura"


"Trionfano l'immagine e l'intrattenimento" Lo j'accuse del Nobel peruviano
che presenta in Italia "Il sogno del celta"


RENATO RIZZO
TORINO

Gli anni sono stati leggeri con lui: ha il volto senza una stropicciatura, proprio come il suo abito grigio di ottimo taglio, e il sorriso del cosmopolita che ha vissuto il mondo senza dissiparsi e lo sa guardare con cauto ottimismo pur avvertendone gli scricchiolii. Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura nel 2010, è un intellettuale che alterna il microscopio al telescopio: nelle sue opere indaga gli aspetti più reconditi dell’animo umano e, nello stesso tempo, sa leggere l’ordine del pianeta facendo della realtà della storia il punto di partenza del proprio lavoro. Come accade nel suo ultimo libro, Il sogno del celta, nel quale racconta la vita leggendaria d’un irlandese, Roger Casement, che, seguendo la scia di sangue lasciata in Africa e nell’America del Sud dal colonialismo tra Otto e Novecento, dedica l’esistenza alla lotta senza quartiere contro questa piaga sino a salire, martire di un’idea, sul patibolo.

Se si sforza di leggere, oggi, l’ordine del pianeta, che cosa vede attraverso le sue lenti di intellettuale che, come dice lei, «non ha paura di sporcarsi le mani con la vita»?
«Scorgo, soprattutto, una preoccupante deriva culturale. Il nostro tempo sembra correre cantando verso la frivolezza e la banalizzazione.
La cultura ha perso la sua nobiltà, sta diventando intrattenimento. E curiosamente, ma neppure troppo, ciò avviene non nel Terzo Mondo, ma nel Primo. È un’analisi alla quale mi sto dedicando e che sarà il focus d’un mio prossimo saggio».

Forse non a caso l’aggettivo «divertente» è tra i più usati nel nostro linguaggio e sembra aver soppiantato il termine «bello»: è divertente una mostra, un’opera teatrale, un libro...
«Vede,
la cultura è anche divertimento, ma se è solo divertimento non è più cultura. Stiamo assistendo alla vittoria dell’immagine, all’imposizione di forme d’intrattenimento che devono essere forzatamente facili e accessibili alla maggioranza delle persone. Questa smania di semplificazione ha fatto sì che lo stesso termine “cultura” perdesse il suo significato originario. E intravedo il pericolo che non solo disimpariamo a discernere, appunto, tra categorie come bello e brutto, ma addirittura tra buono e cattivo (*). Così l’idea di una cultura alla portata di tutti ha condotto al collasso i valori con i quali si giudicava la cultura stessa».

Qualcuno potrebbe vedere in questo sfogo una difesa elitaria e obiettare che l’ampliamento della base culturale ha molto  a che vedere con la democrazia.
«La democrazia consiste nel diffondere e rendere accessibili a tutti i prodotti culturali
senza snaturarli. Devono parlare i fatti, non le statistiche dei musei. È possibile che un Damien Hirst spacci per arte uno squalo di quattro metri messo in una vasca di formaldeide? Pagliacciate. Quando tutto è cultura, niente è cultura».

Torniamo alla storia. Roger Casement, il protagonista del romanzo, dimostra con la sua lotta al colonialismo quanto la civiltà che arrivava dall’Europa con l’ipocrita impegno di «salvare» i senza diritto, soprattutto africani, fosse in realtà solo oppressione e sfruttamento. Ora nel Maghreb, e non solo, s’è levato un vento di libertà che squarcia un angolo di pianeta in cui sfruttamento e oppressione non hanno mai avuto interruzione. 
«Quel che accade in quei Paesi è fantastico: per la prima volta un movimento non religioso si ribella a satrapie medievali. Chiede libertà, vuole lavoro. Dobbiamo esserne contenti e dare la nostra solidarietà a questa gente stanca d’essere vessata, proprio come facevano i produttori di caucciù con i congolesi di cui parlo nel libro».

A dire il vero in Europa - e in Italia, in particolare, terra d’approdo di tanti uomini e donne sospinti dalla speranza d’una vita meno grama - c’è chi osserva: «Una volta eravamo noi a invadere l’Africa, adesso è l’Africa a colonizzarci condannando alla disoccupazione i nostri figli e “contaminandoci” con culture estranee».
«Pregiudizi assurdi, il risveglio di vecchi demoni che credevamo sopiti. Gli immigrati riempiono i vuoti del mondo dell’occupazione: vanno dove c’è bisogno di loro. Certo, servono regole, permessi, sicurezza, ma l’arrivo e l’integrazione di queste persone è indispensabile per un Occidente dove sempre meno gente mantiene sempre più gente. E, poi, non sono “il male”. Gli Stati più prosperi sono quelli che hanno aperto le frontiere: cosa sarebbe l’Europa, oggi, se non avesse avuto, al proprio interno, le migrazioni di portoghesi, spagnoli, greci e italiani?».

Giovani in rivolta nell’Africa del Nord, ma anche alle nostre latitudini. In Spagna gli «indignados» gridano la voglia di vivere in una società nuova, con una politica nuova.
«È un fenomeno in cui si legano due aspetti: da un lato la legittima protesta di ragazzi e ragazze che hanno studiato, si danno da fare e hanno di fronte la prospettiva d’una esistenza indecorosa, senza lavoro in un Paese che ha il 20% di disoccupazione. L’altra faccia della medaglia mostra un rischio terribile:
che l’indignazione diventi rifiuto degli strumenti e dei meccanismi partecipativi».

Tutti contro tutto, dice lei?
«Io sostengo che se i partiti e le istituzioni non esercitano le proprie funzioni bisogna curarli, non reclamarne l’eliminazione. Se gli amministratori sono corrotti bisogna sostituirli. Se hanno comportamenti sconvenienti, anche da un punto di vista sessuale, condannarli perché un atto privato, per un politico, ha sempre un’importanza pubblica. Certo, a questo proposito guardo a quanto è successo a Strauss-Kahn in Usa e mi domando
: sarebbe accaduta la stessa cosa, con la stessa rapida inflessibilità, in Francia, in Spagna o in Italia?».

Vede in questo movimento una riedizione riveduta e corretta del Sessantotto? 
«Il Sessantotto, secondo me, è stato una sorta di bello spettacolo che non ha risolto i problemi per i quali lottava. “Proibito proibire” era solo una frase pericolosamente letteraria. Credo che los indignados potranno esportare, in qualche modo, la loro protesta anche in altri Paesi, ma devono rendersi conto che stanno inquadrando come bersaglio qualcosa di più importante di partiti e istituzioni: la democrazia stessa.
Si interroghino: se non funziona la democrazia, che cosa funziona? La dittatura? »


(*)  Nota di Rottamatoio: L’arte è solo una parte, ma importante, della cultura. Può fare a meno della conoscenza, rifiutare l’oggettività dell’estetica (il bello e il brutto) e fregarsene dell’etica (il bene e il male)? Sarebbe ancora cultura? (vedi il titolo dell’intervista)

sabato 14 gennaio 2012

politica: verbis vs polis: parole, parole, paroleee....e la chiamano politica


La Stampa, 29 mag. 2011
La parola politica specchio del nulla
di Guido Ceronetti

    Parlare non è emettere parole. Se si pensa quel che si dice, c’è da ammutolire. Il politico, avendo perso quasi dappertutto il rapporto tradizionale con l’azione, emette parole, ed è questo il principio e la fine del suo agire. Il mondo viene modellato e organizzato a partire da enormi enfiature di parole che surrogano l’azione – che non compiamo più – e che il capo politico ha compiuto talvolta prima di esercitare un potere fatto esclusivamente di parole il cui fondamento è meramente grammaticale. Mussolini, dopo la Marcia – in verità, non avendola materialmente fatta, fin da prima, dal 1919, diventato lui stesso gigantesco silos di parole, organizza il mondo emettendo dei battaglieri, cadenzati e a loro modo efficaci reggimenti di fonemi.
    Il caso Berlusconi è straordinariamente emblematico. Dietro di sé non ha mai avuto un agire: fin da subito organizza il mondo aziendale attorno a sé adoperando esclusivamente lo strumento parola, di cui non conserva neppure la superficie semantica – gli basta la pura struttura sintattica-grammaticale. Attraverso la macchina dell’industria di trasformazione televisiva, dal mondo aziendale passa, con estrema facilità, ad organizzare il mondo di una nazione come l’Italia, già resa frolla da migliaia di trasmissioni, e in brevissimo tempo, con una campagna elettorale compiuta a passo di corsa, l’Italia violentata magicamente e resa madre di nulla, madre delle stesse parole che in giudizi e pensieri saranno state emesse dai teleschermi.
    Si spiega l’indifferenza berlusconiana per i significati, il contenuto magmatico delle sue parole di difesa, d’attacco e di smentita del tutto privo di sostanza e di valore morale. Semanticamente, le sue parole non vogliono significare nulla, come non vogliono significare nulla quelle di chi rimprovera a lui il nulla del suo significare. Tutti possono dire qualsiasi cosa: la forza delle parole sta tutta, terribilmente, nel loro scorrere e affluire alle menti, anche le più intelligenti (nota bene!), e persuaderle di qualche verità inesistente, in quanto mondi di parole, architetture di franamenti silenziosi.
    Nella realtà inesistente delle parole che non hanno peso né significato, sebbene possano seriamente essere captate, discusse, proposte come se ne avessero, Berlusconi non è affatto un’anomalia. Giudicare che lo sia è un’obiezione simmetrica di un contrasto che patisce della stessa privazione di significato. In questo senso, Berlusconi non ha (né potrà mai avere) vera opposizione. Vivrà politicamente ben al di là del suo stesso tramonto.
    Un parallelismo estremamente indicativo ce lo dà oggi lo stesso presidente degli Stati Uniti. Se misuriamo il discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln a un qualsiasi intervento oratorio di Obama, intravediamo l’abisso tra la parola che significa e crea mondo reale, e quella che propaga messaggi che colpiscono, attraggono voti, capitali, ovazioni, commenti mondiali, analisi critiche, senza mordere realtà gravide di strati, senza organizzare il mondo come a Gettysburg, rivoltarlo de profundis, o anche, semplicemente, mantenere una promessa elettorale. Obama è il primo presidente degli Stati Uniti in cui l’azione appare completamente svincolata dal Dire ed è tutta etero diretta rispetto a colui che parla.

    Un esempio recentissimo: Obama riprende l’utopia adulatrice e triviale dei Due Stati (il Gòlem-Palestina e l’eternamente in guerra Israele) e sorprendentemente rilancia la stessa retorica dell’ultimo Arafat: il ritorno dei confini israeliani al 1967. L’avesse detto Berlusconi si sarebbe detto: va beh, è Berlusconi….Ma Berlusconi sarebbe stato meno imprudente! Non c’è parola in grado di risolvere un nodo così stregato: né patto tra le parti, né interventi di altri a cui non preme che dire senza significare; perciò abbiamo ben più da temere che da sperare. La proposta ventosa di Obama, se fosse obbedita, portemente drittamente al suicidio di Israele e al reimbarco sull’Exodus dei superstiti. Perché farla, buon uomo?

    Una lingua senza più ormeggi, senza misura né controllo etico serrato sfocia, nell’agorà politica, giudiziaria, scolastica, in un bacino d’incontinenza verbale in fradice sequele di dichiarazioni insensate, di propositi assurdi, di smentite e rinnegamenti a ruota di qualsiasi cosa sia detta o pronunciata pubblicamente.
    L’insignificanza non è innocua; quella di cui soffre il dire non è episodica; sono colpi di scure ripetuti ai piedi dell’albero Ragione. Quando non prevale che il luogo comune e il sermone corre su binari che sembrano rassicuranti perché privi di novità, allore si affaccia il Pensiero Unico e ci manetta tutti, dai capi dello Stato e dal sindaco al barbone, dal cardinale al famelico sbarcato.
    Nei reni del Pensiero Unico si annida una violenza totalitaria metastatica, impaziente di qualsiasi ostacolo (legale, tradizionale, nazionale, ecologico), adattabile ad ogni tipo di regime, che bene o male spacciandosi per neoliberalismo economico trova il suo micidiale strumento pervasivo nel linguaggio politico e di relazione che, ripeto, non ha fondamento reale e non significa che sé stesso – figlio di Beliàl, dice la parola scritturale, cioè del Nulla come entità maligna.
    L’unica buona regola è diffidare sempre, non credere a nessuno, rigettare ogni predica, il consenso autorevole, l’assoluzione dissolvente…

                                                                        -oOo-

"Ho l'abitudine di dire quello che penso e di fare quello che dico. Piuttosto originale, in politica; ve l'assicuro." - Emma Bonino


domenica 8 gennaio 2012

governo e governati


   Nell'alto Lazio, quando un allevatore deve portare il fieno alle mucche o le pecore al pascolo, usa l'espressione "vado a governare le bestie", dove bestie non ha nulla di offensivo, significa solo bestiame; quello che colpisce è l'uso del termine "governare" come sinonimo di sfamare.
   Mi chiedo, guardando alla nostra storia anche recente, se nel senso comune della maggioranza degli italiani (anche se non nel loro linguaggio) non ci sia esattamente lo stesso significato. Dall'alto (o dal basso) della mia veneranda età, non posso fare a meno di notare il ripetersi di un ciclo in 6 fasi, come segue:


1 - quasi tutti noi italiani, dopo una fase di tribolazioni e batoste, scopriamo un uomo della provvidenza, lo acclamiamo "governante" ( Re, Duce, Presidente ecc.), e lo carichiamo di aspettative messianiche. Continuando a sgobbare.
2 - segue un periodo in cui il rapido miglioramento della situazione prodotto dal nostro sgobbare viene regolarmente accreditato a merito del suddetto governante, la cui popolarità sale alle stelle.
3 - noi governati, delusi dal raggiunto benessere che non ci ha portato la felicità, cominciamo a chiedere che il lavoro venga sostituito dal posto di lavoro; oppure il raddoppio del reddito, meglio se entrambi, e ci diamo al consumismo più sfrenato. Il governante, nel vano tentativo di mantenere la propria popolarità, estrae dal proprio cilindro un coniglio demagogico (un sogno nazionalistico, una guerra, un boom drogato ecc.) e si infila nella spirale dell'indebitamento dello stato, approfittandone anche per fare un bel po' di cresta sulla spesa. Noi governati pensiamo di essere ormai una grande potenza anche se basterebbe aprire gli occhi per vedere dove si stiamo cacciando. Ma ormai ce ne freghiamo di tutto, del governante e del debito: non sappiamo che lo stato siamo noi, né lo vogliamo sapere.
4 - arriva il giorno in cui piovono bombe, o in cui i creditori, preoccupati per il livello del debito, cominciano a chiedere interessi da strozzino per rinnovare i prestiti scaduti. Noi governati scopriamo che il governante non ci sfama più, precipitiamo dalle nuvole, ci scopriamo poveri, ci indigniamo... e linciamo il governante. Accusandolo di avventurismo e di corruzione, di essersi mangiato tutto l'ammontare del debito accumulato e rifiutandoci di riconoscere le nostre colpe.
5 - dopo agitazioni e sommovimenti, tanto violenti quanto inutili, noi malgovernati ci sottomettiamo "obtorto collo" ad un masochista che raddrizzi la baracca, ma lo scambiamo subito per un sadico perché ha il difetto di dire la verità lapalissiana: "Dovete ricominciare a lavorare sodo e bene e per di più ripagare il debito". Costui si differenzia dal suo predecessore per la durata della luna di miele, che invece del solito ventennio, stavolta dura venti giorni e poi, in un coro ritmato in cui allo slogan di sinistra "evviva la rivoluzione!" si sovrappone alla perfezione quello di destra "aridatece er puzzone!" comincia quel gioco che i nostri nonni chiamavano "tre palle, un soldo" con cui alle giostre si cercava di abbattere un pupazzo con palle di stoffa. E il masochista, finito il suo "lavoro sporco", finisce presto e malconcio in soffitta.
6 - come nel gioco dell'oca, si torna al punto 1, ricominciando a sgobbare. Ma non a meditare, né tampoco ad imparare. Troveremo un nuovo uomo della provvidenza che ci racconterà, tra gli applausi, quello che vogliamo sentirci raccontare.


Proposta per rompere il circolo vizioso: chi è causa del suo mal linci sé stesso.
                                                                                                                       Candido

estetica: la più grande povertà, l'ignoranza d'esser ricchi


……………Mi venne in mente, quella volta che a Pacific Groove io stavo verniciando l’interno di una villetta che mio padre aveva costruito prima che io nascessi. L’uomo che mi aiutava era al mio fianco, e siccome nessuno dei due era pratico, ci sporcavamo tutti. A un tratto ci accorgemmo di aver finito la vernice. Io dissi: “Neal, fai una corsa da Holman e fatti dare mezzo gallone di vernice e un litro di solvente”.
   “Ma prima mi devo ripulire e cambiare” disse.
   “Ma no, vai come sei.”
   “Non posso.”
   “Ma io ci andrei.”
Mi disse una cosa saggia e memorabile: “Devi essere parecchio ricco per vestirti così male”.
   E questo non è buffo. Ed era vero anche nel giorno di festa. Debbono essere incredibilmente ricchi, i texani, per vivere in tanta semplicità………………..

John Steinbeck – Viaggio con Charley



     La grandezza di Picasso non sta, a dirla approssimativamente, nell'avanguardia ma nella tradizione. Cioè: non guardò all'avvenire ma al passato, a quel che era stato fatto e che lui, col suo grandissimo e febbrile talento, non poteva più fare. Poteva soltanto disgregare, scomporre, deformare: spesso con ironia, a volte con disprezzo, sempre con la rabbia di essere arrivato quando tutto era già stato fatto.
     Percorse così tutta la storia dell'arte, e anche tutta l'arte senza storia. E disse sull'uomo, sul passato dell'uomo, reinventandolo, rifacendolo, tutto quello che gli imbecilli oggi negano.

Leonardo Sciascia - Nero su Nero

venerdì 6 gennaio 2012

mostri: il crucconapoletano


....ovvero dramma, farsa e tragedia

    L’uso della (sola) ragione ci costa la rinuncia a due illusioni: quella, euforizzante, della vita come farsa e quella, tranquillizzante, della certezza come verità. E sostituirle con la realtà del dramma della vita e con la fatica, ma anche il fascino, della condizione umana di perpetui assetati cercatori di verità.
    Ma il prezzo della (sola) fantasia è di pagare in tragedia l’illusione della vita come farsa e la disillusione delle false certezze.

    Purtroppo l’esperienza mi insegna che un buon equilibrio tra ragione e fantasia è negato alla stragrande maggioranza degli esseri umani, il cui cervello funziona a sistema binario: uno o zero, tutto o niente, ragione o fantasia, quadrati o rotondi, tedeschi o napoletani.
    Mi ci è voluta una vita intera per raggiungere l’armonia: da entrambe le sponde sono ormai considerato un mostro: un crucconapoletano!

mostri 1 - uomo e scimpanzé

     Nel 1991 fu pubblicato a Londra il saggio "The Rise and Fall of the Third Chimpanzee" (in Italia: Il terzo scimpanzé: ascesa e caduta del primate Homo Sapiens - Bollati Boringhieri Ed. - 2006), del biologo americano Jared Diamond, in cui si spiega come e perché la scimmia ominide sia passato con rapida evoluzione, da semplice mammifero di grossa taglia a forza di dominazione dell'intero pianeta Terra.
     Ma l'analisi più originale è dedicata alla descrizione del virus che da sempre accompagna il grande progresso indubbiamente realizzato dall'uomo: il seme dell'autodistruzione, storicamente manifestatosi attraverso il genocidio, la guerra alla natura e la soggezione alla droga. Wikipedia fa giustamente notare che in ciò si riecheggia un noto tema di Simone Weil in Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale: "Ogni vittoria reca il germe di una futura disfatta".
     La cosa più curiosa, almeno per me, è che nonostante ciò Diamond, da buon antivivisezionista, partendo dall'osservazione che Homo Sapiens condivide con i due scimpanzé Pan troglodytes (sc. comune) e Pan Paniscus (sc. nano o bonobo) il 96% del proprio DNA, propone di modificare il nome di questi in Homo Troglodytes e Homo Paniscus.
     Non pare a voi che logica vorrebbe che si lasciasse ai nostri cugini scimpanzé il loro dignitoso nome attuale modificando invece quello dell'Homo Sapiens in Pan Demens?


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giovani: il tesoro scomparso



 
Quando scrivo sono prolisso. Invidio coloro, rari in verità, che sono capaci di donare sensazioni, scoperte o riflessioni preziose con una manciata di parole. Ne faccio un esempio, tra i migliori:

“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.”
Ma con un’altra manciata di parole il suo autore realizzò un prodigio, e trasformò quelle parole in diamanti:

“Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. E’ duro imparare la propria parte nel mondo”.

Era il 1931 e Paul Nizan, sull’orlo di quella vertigine che è la vita, brandendo la sua penna come una bacchetta magica,  aveva dato al mondo quel tesoro antiluogocomunista!
“Aden Arabia” poteva e doveva finire lì, alla sesta riga, avendo detto tutto su generazioni di giovani da allora ad oggi, e forse da sempre e per l’eternità, e Paul avrebbe avuto il suo seggio tra i fari del sapere umano.
      Invece, forse accecato da tanto bagliore, terrorizzato dalla sua scoperta, straziato dalla sua età, Paul cercò salvezza nell’Ideologia, quella droga che ti libera dalla paura trasformandola in odio, e continuò a scrivere, a scrivere, fino a seppellire quel tesoro sotto strati geoideologici di vane parole. Morì due volte: nel ’39 a lui, comunista, il patto Molotov-Ribbentrop rubò la droga e l’anima; nel ‘40 il piombo tedesco rubò il corpo e quel che restava della sua vita.

Il tesoro è ancora là sotto, praticamente sottratto al mondo. Solo pochi accaniti tombaroli, da allora, ebbero la fortuna di vederlo, ancora meno quelli che lo riconobbero. Ne incontrai un paio che lo andavano raccontando in giro, e furono trattati da ciarlatani.

E perciò eccoci qui, ancora  a sorbirci pistolotti sociologici sul disagio dei “giovani d’oggi” e dotte analisi sulle sue cause: tra queste ricordo personalmente la miseria nel 48, l’incomunicabilità nel 58, il consumismo nel 68, la repressione nel 78, il carrierismo nell’88, il pensiero unico nel 98, la scomparsa del futuro nel 2008, la disoccupazione sempre, la scomparsa della memoria mai.

Paul, Paul, perché ci lasciasti?

  Eternamente tuo, Candido (felicemente invecchiato cercando verità). 

martedì 3 gennaio 2012

c'era una volta.....e pure adesso

C'era una volta una famigliola di uccellini che aveva trovato un modo geniale per sconfiggere la fame senza rischiare di finire in pasto al minaccioso falco che volteggiava sulla loro valle. Il capofamiglia aveva istruito così la sua compagna e i suoi sei figli: "Per non farsi ghermire dal falco dobbiamo razzolare nell'erba restando sotto la pancia di una mucca al pascolo, così lui non ci vedrà". Il sistema funzionava a meraviglia: al riparo di quella enorme mole protettiva, i piccoli saltellavano felici ingozzandosi di insetti e vermetti lasciati scoperti dal brucare della mucca, una vera cuccagna.

Ma un brutto giorno uno dei piccoli, proprio il più vivace e vorace, appesantito dalla digestione, si attardò un po' troppo rispetto all'avanzare della mucca e, mezzo insonnolito, fu investito e sommerso da un gigantesco escremento della mucca. Sentendosi soffocare il tapino spinse con tutte le sue forze ma riuscì appena a far emergere la testa da quell'ammasso disgustoso, mentre la mucca indifferente si allontanava di un altro passo. Tutti gli altri uccellini fuggirono spaventati nel bosco, tranne il padre che tentò di tirar fuori il suo piccolo roteando le ali come un elicottero e tirandolo per la testa verso l'alto, ma quello, più per il dolore al collo che per lo spavento, cominciò a strillare: "cìììììp, cììììììp, cììììììììp!". Fu un attimo: attirato da quelle grida, il falco si tuffò a missile sulla preda, l'uccellino padre fece appena in  tempo a schizzare via, e l'insofferente figlioletto finì nel gozzo del rapace.
Purtroppo questa favola non ha un lieto fine, proprio come la vita reale. Però, come tutti gli errori, ha una morale, cioè qualcosa da insegnare ai sopravvissuti (se capaci di apprendimento) per la loro ancora lunga vita. e la morale è:
"Ma ssì te ritrovi ne la merda fino ar collo, che te canti? che te strilli? Ma statte zzitto, arméno nun fai scappa' chi prova a sarvatte!" (Se sei nella merda fino al collo non cantare, non strillare. Taci, e lascia lavorare chi tenta di salvarti!).

Dedica: All'amato popolo italiano, che non mediterà né apprenderà, come al solito.
Per conoscenza: a Mario Monti, chiamato a inventarsi una ripresa economica senza un soldo da spendere. Auguri, che faccia più presto che bene, non lo invidio.
Per riconoscenza: al grande Nino Manfredi, a cui devo la base della fiaba qui elaborata.