mercoledì 22 febbraio 2012

aforismi, proverbi, luoghi comuni e loro antidoti


Il fine giustifica i mezzi.
Antidoto: a questo pilastro del machiavellismo, che sembra vincente, il suo stesso fine gli è alla fine negato: il successo” (Wilhelm Ropke) perché sono i mezzi che determinano il fine.

Ride bene chi ride ultimo.
Il saggio impara dalla storia, lo stupido dalla cronaca.

E’ peggio di un crimine, è un errore (Fouché o Talleyrand)
E' una balla. Molto meglio l’ “errare umanum est, perseverare diabolicum” dei latini. Per dirla con Karl Popper, per l’uomo è impossibile non sbagliare mai, il che fa dell’errore il suo sommo precettore. Propongo perciò: E’ peggio di un crimine, è la ripetizione di un errore .

Errore ed errante.
L’errore è il nostro più grande maestro, la sua reiterazione il nostro peggiore nemico, l’errante un poveretto che va aiutato ad imparare.

Mogli e buoi dei paesi tuoi
Gli antitradizionalisti sono il peggior flagello dell’umanità, se si escludono i tradizionalisti.

Rasoio di Occam: “non spiegare con dieci parole ciò che si può spiegare con cinque” (versione divulgativa)
Rasoio di Hanlon"Non attribuire a consapevole malvagità ciò che può essere adeguatamente spiegato come stupidità".

Legge del taglione, ovvero "A brigante, brigante e mezzo".
Risultato, piccoli briganti crescono.

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
Ne consegue che Cristo era un magnaccia e Maddalena la figlia di Dio. Antidoto: L’abito non fa il monaco, ovvero la fatica di conoscere prima di giudicare.

"C'è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull'autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento. E la scienza vincerà perché funziona" - Stephen Hawking

"Ho l'abitudine di dire quello che penso e di fare quello che dico. Piuttosto originale, in politica; ve l'assicuro" - Emma Bonino

lunedì 20 febbraio 2012

il partito aperto e i suoi nemici

Un tram chiamato partito
    Vi siete mai chiesti perché nessuno si fiderebbe di un tram con destinazione sol dell'avvenire, benessere e felicità, o uguaglianza e sicurezza ( e che invece di partire resta al capolinea inondando l'aria di altisonanti proclami mentre il conducente e qualche suo amico mangiano e bevono), e invece di un partito si?
    Elementare: perché gli italiani alla politica chiedono favori o sogni, come consolazione alla squallida realtà in cui sono costretti a vivere dai propri comportamenti politici.

    IL PARTITO CHIUSO è il partito tradizionale: è strutturato sul modello clericale della Chiesa Cattolica: senso comune e tradizione controriformista non rendono credibili altri modelli.
    Ha uno statuto selettivo che sembra quello di una comunità dei santi: ha la pretesa della perfezione. Per essere ammessi si richiede di avere una comune visione del mondo (religione o ideologia), bisogna accettare la sua dottrina e obbedire alle direttive dei sacerdoti-dirigenti, custodi dell'ortodossia e grandi elettori del pontefice-segretario. Ha sempre un tribunale dei Probiviri che espelle chi osa insudiciare con il suo comportamento l’immacolata immagine del Sacro Partito, ma che di solito interviene troppo presto su questioni ideologiche, troppo tardi su reati contro la legge e mai per promesse non mantenute.
    Ha anche un programma di cose da fare e di promesse da mantenere, che serve a riscaldare i cuori di iscritti ed elettori, ma che dopo ogni campagna elettorale nessuno ricorda più e resta lettera morta, proprio come le encicliche papali; ma, come insegna il catechismo, la menzogna è un peccato veniale.
    Essendo basato sull'utopia totalitaria di una comune visione del mondo, sogno impossibilitato dalla logica e dalla storia,  è un partito ideologico, e perciò disunito al di là delle apparenze: infatti non può sfuggire all'alternativa tra il "centralismo (anti)democratico" con conseguenti scissioni, e la divisione in costosissime correnti l'una contro l'altra armate.

    E' un partito-chiesa, un partito chiuso. Nella prassi le sue dimensioni vanno ben al di là del numero di iscritti, comprendendo anche, e soprattutto, gli elettori non iscritti - definiti infatti "il nostro elettorato"- i quali normalmente del partito conoscono solo le quotidiane "prese di posizione" elargite dai media (il "teatrino della politica, puri fonemi senza alcun legame con l'azione"), quanto basta per farli sentire tanti, importanti e di ugual sentire. O a scatenare le loro ire e critiche, non al Sacro Partito ma ai suoi chierici o dirigenti, proprio come i credenti-non-praticanti di Santa Madre Chiesa. Esemplare l'invettiva nota come "l'anatema di Nanni Moretti" lanciato nel suo "Aprile": "D'Alema, dì una cosa di sinistra!". Un fonema (l'anatema) con cui si supplica di DIRE (ancora fonemi), non di FARE !!
    Gli elettori sembrano non aspettarsi nessuna realizzazione del programma, che d'altronde non conoscono, ma ritengono essenziale che il partito blocchi l'attuazione del programma degli altri partiti, i quali quasi sempre non hanno nessuna voglia o possibilità di realizzare quelle promesse elettorali, veri libri dei sogni. Hanno però due situazioni di sincera esultanza, nei quali somigliano meno a una chiesa, ma un gradino sotto: quando il partito aumenta i voti alle elezioni e quando, mettendosi di traverso, riesce ad impedire un successo del partito avversario; qui somigliano più ai tifosi durante un derby.
    Il fenomeno potrebbe far vacillare una mente sana, ma come tutto ciò che è reale ha una spiegazione che va ricercata nella psicosociologia.
     
    Partito d'apparato, strutturalmente criminogeno, in cui l'iscrizione costa poco o nulla, in omaggio al principio populista che altrimenti la politica sarebbe monopolio dei ricchi (vedi il post "società civile 2 - il destino in appalto", con le statistiche sulle spese per giochi e lotterie dei "poveri"). Ciò rende possibile, direi obbligato,  il ricorso a falsi tesseramenti nella guerra tra le correnti, con aumento vertiginoso dei "costi della partitica".
    Nessuno si spiega, e quel che è peggio nemmeno si chiede, perché tutti i partiti catto-leninisti finiscono fatalmente per delinquere. Si addossa la responsabilità ai vertici, dimenticandosi che salirono al vertice proprio a sostituire altri vertici con gli stessi difetti; ma si sa, la memoria non ha cittadinanza in strutture funzionali solo a "vincere" alle prossime elezioni. Invece la causa sta nell'alto costo che la convivenza forzata - in una struttura con pretese di tuttologia totalizzante - richiede a causa delle inevitabili divisioni interne, il che fa diventare questione di vita o di morte per il partito una forte presenza parlamentare, con altre due conseguenze: costi insostenibili delle campagne elettorali e perdita d'interesse per ogni attività politica extra-parlamentare. Le radici della partitocrazia. 
                                                                 -oOo-

     A questo modello si rifanno tutti i partiti piccoli e grossi degli ultimi sessant'anni, con l'unica eccezione del partito radicale, (1955-1989) che nel 1967 si dette uno statuto di tipo federativo e lo presentò come strumento pragmatico di "unità laica della sinistra" in alternativa alle due strategie perdenti di allora, note come "unità della sinistra laica" e "unità della sinistra popolare", entrambe ideologiche e inconciliabili. Quella proposta, più in chiave bipartitica che antidemocristiana, fu rifiutata sia dai cosiddetti laici che dai socialcomunisti, tutti tesi alla conservazione o alla ricerca di un rapporto privilegiato con la DC.
    Quello statuto di partito aperto, concepito per il grande (e grosso) "Partito Democratico" della sinistra italiana, rimase fino al 1989 la struttura che servì al piccolo PR per diventare un "grande" partito, gli permise cioè di FARE grande politica per oltre vent'anni, sia stando fuori che dentro il Parlamento, e di consegnare all'Italia tutta una serie di riforme civili (spesso imponendole a maggioranze ed opposizioni parlamentari più  che riluttanti) che nessun "grosso" partito può vantare. 
    Nel 1989 il PR si trasformò in "transpartito transnazionale", adeguando lo statuto (anche con qualche carattere ideologico) ed affidando ad associazioni "ad hoc" le varie politiche nazionali; attualmente in Italia opera il movimento "radicali italiani", con uno statuto molto semplificato ma che conserva lo spirito dell'antico impianto. 

     IL PARTITO APERTO è dissacrato e imperfetto, perché nelle faccende umane la perfezione è un concetto sacralizzante, mummificante, antievolutivo. Il partito radicale è ancora un partito aperto.
    Nel partito aperto si può iscrivere chiunque paghi la quota associativa: il termine "radicale" non significa altro. Non è richiesta alcuna professione di fede, dal momento che ognuno mantiene integra la sua libertà del cui uso risponde individualmente alle leggi dello stato; il partito non è una comunità dei santi e perciò non risponde del comportamento dei suoi iscritti, fatta eccezione dei suoi organi politici esecutivi, cioè Segretario e Tesoriere. Ne consegue che non ci sono limiti di età, di nazionalità, di tessera partitica, di fede religiosa o ideologica, non esiste espulsione né probiviri, né esami d'integrità morale o di situazione giudiziaria. Perfino la ragione sociale di tale partito, cioè la mozione annuale dell'ultimo congresso, è vincolante soltanto per gli organi esecutivi e solo se approvata con la maggioranza dei due terzi; la partecipazione attiva degli altri iscritti è necessaria e sollecitata ma non obbligatoria, potendosi limitare alla quota associativa.
    La quota associativa approvata dal congresso annuale viene considerata molto alta dal comune cittadino. Attualmente è di 55 cent. al giorno (200€ l'anno), secondo il principio ottocentesco della Fabian Society per cui "Non esiste professione di fede senza il versamento di uno scellino)"; in sostanza, la quota fa sì che gli iscritti credano nella politica quasi quanto nel caffè che ogni mattina prendono al bar.
    Al partito possono aderire anche associazioni e movimenti non radicali con modalità dettate dallo statuto allo scopo di raggiungere gli obiettivi della mozione congressuale. Nella prospettiva bi- o tripartitica che gli è propria, il partito aperto è proprio una federazione di associazioni della società civile che si riconoscono negli obiettivi fissati dall'ultimo congresso.

    IL CONGRESSO è annuale, il che significa che il partito che lo convoca ha esaurito la sua ragion d'essere, sia che abbia realizzato gli obiettivi del mandato ricevuto sia che non ci sia riuscito. Il congresso dà vita ad un nuovo partito, sia che decida di procedere lungo la direttrice  del partito "scaduto" sia che cambi rotta, secondo le deliberazioni degli iscritti e delle associazioni. Al nuovo partito ed alle sue deliberazioni con relativi organi e statuto si aprono le nuove adesioni.
Ne consegue logicamente che più gli obiettivi della mozione saranno concreti e limitati ma incisivi, più saranno gli iscritti maturi e partecipanti e meno saranno gli "idealisti" e gli inevitabili "tifosi". E così è sempre stato.

    GLI ELETTI obbediscono alla Carta Costituzionale, che recita "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Perciò essi non rispondono né al proprio partito né ai propri elettori ma all'intero popolo italiano. Come gli altri privati cittadini possono iscriversi e partecipare all'attività del partito oppure no, ma decadono da ogni carica esecutiva all'interno di esso.


    IL BILANCIO è analitico, annuale e pubblico. IL FINANZIAMENTO è affidato alle quote degli iscritti e delle associazioni aderenti, e ai contributi di persone fisiche e giuridiche abilitate. Esso è finalizzato alle spese gestionali ed alle attività politiche per l'attuazione della mozione congressuale.
Per poter funzionare, un modello di autofinanziamento così concepito ha bisogno di due condizioni: una legge elettorale che tenda al bipartitismo (non al bipolarismo di coalizioni) e scoraggi la proliferazione delle sigle, e spazio garantito sui media solo per le attività politiche ed elettorali, senza le quali le dichiarazioni dei politici che intasano i tg sono puri fonemi, aria fritta. 

    EFFETTI CONCRETI E CONSEGUENZE :
1) Disambiguazioni: 
     A) Il sostantivo "Radicale" va inteso esclusivamente come persona iscritta al Partito Radicale transnazionale per l'anno corrente.
     B) Essendo il PR, dal 1967, l'unico partito pragmatico senza base ideologica, non è assimilabile a ideologie o movimenti associati al termine "radicalismo".
     C) Essendo un partito a termine, sono esistiti un numero di partiti radicali uguale al numero di congressi effettuati, ciascuno denominato PR, ma seguito dall'anno di riferimento. La sigla PR indica solo l'insieme di essi. Il conformismo partitocratico ha sempre ironizzato sull'alto numero di congressi radicali, dimostrando o fingendo solo ignoranza della logica di un partito aperto. 

2) Il partito aperto è un partito-strumento-usa-e-getta, come un tram che prendi per andare alla prossima fermata e lì scendi. E se vuoi andare alla fermata successiva ci risali ( ma è cambiata la vettura, perciò paghi un nuovo biglietto) per continuare la corsa, senza pretendere un esame di ammissione per i passeggeri, del tutto ininfluente sul percorso del mezzo.
Si basa su tre pilastri: l'iscrizione libera, il bilancio annuale pubblico, il congresso a data fissa . Gli iscritti (ma anche qualsiasi cittadino) hanno così l'occasione, a scadenza fissa e annuale, di controllare l'attuazione degli impegni assunti dal Segretario e dal Tesoriere (entrambe le cariche sono politiche, non amministrative) e la veridicità del bilancio, e trarne materia per le loro deliberazioni non solo congressuali, ma di ogni tipo, anche giudiziarie.

3) Il partito aperto non può né rifiutare iscrizioni né espellere iscritti, che restano tali fino alla scadenza annuale. Ne consegue che un "radicale" non possiede alcuna patente di moralità, intelligenza o altre caratteristiche positive o negative per il solo fatto di aver versato una quota d'iscrizione ed avere con ciò accettato le norme dello statuto. Da qui lo scandalo che provoca nella cultura nazionalpopolare di matrice clericale "scoprire" tra gli iscritti il mafioso ergastolano e la pornodiva, l'ambizioso, il truffatore, l'iscritto ad un altro partito, il premio Nobel e il ladro notorio; non si capisce che la contraddizione non è del partito aperto, ma dei singoli iscritti.
Infatti il partito è solo statuto, quota d'iscrizione e mozione congressualeQuesto mix crea un'eccezionale sinergia democratica e non consente l'affermarsi del concetto di appartenenza con i conseguenti comportamenti omertosi tipici del partito-chiesa; ha invece la conseguenza positiva che chiunque venga a conoscenza di un reato commesso da un altro radicale può e deve denunciarlo all'autorità giudiziaria, libero dal timore di danneggiare il partito.
L'onestà non è una virtù connaturata alla natura umana, essa va incentivata e non ostacolata dalla struttura organizzativa. Non è un caso se il PR è l'unico partito che ha denunciato alla magistratura un proprio ex tesoriere.

4)  Partito laico, perché non ha opinioni né interessi materiali da difendere, né affida all'autorità dei chierici il suo inesistente "pensiero" o ideologia. Partito evolutivo:, perché qualsiasi congresso ne cambia la rotta, dipanando quel filo rosso costituito dalla sua storia e dalla sua prassi senza diventare identità, "radicalismo": piuttosto applicazione della teoria popperiana della conoscenza per errori e correzione degli errori. Partito dissacrato, perché sacra è solo la libertà di ogni suo iscritto, che unico ne risponde davanti alle leggi dello stato. Partito pragmatico, senza utopie da realizzare e mete ideali oltre l'orizzonte: quelle, se ne è capace, è bene che se le porti l'iscritto nella sua testa o nel suo cuore. Partito d'azione, per dare corpo al possibile contro il probabile e l'impossibile: tutta la sua azione è tesa a poche e concrete riforme compatibili con la sua breve esistenza annuale. Partito di propostasecondo il principio della nonviolenza gandhiana (satyagraha), che rifiuta la protesta in quanto sterile di effetti o tesa a bloccare azioni altrui senza indicare alternative: ancora oggi, dopo cinquant'anni, la professionalità dei giornalisti e degli opinionisti non consente loro di cogliere l'antinomia tra nonviolenza e protesta, nonviolenza e pacifismo.

5) E' un servizio pubblico svolto da un'associazione privata, perciò si basa sull'autofinanziamento degli iscritti e sostenitori, ma non esclude gratuità di strutture o contributi pubblici per le spese sostenute in attività pubbliche effettivamente svolte, se documentate e certificate nella massima trasparenza. Nessuno degli iscritti al partito aperto (o degli eletti col suo appoggio) può offendere gli elettori che scelgono di onorarlo dei loro voti considerandoli "il nostro elettorato": il partito è al servizio degli elettori, non viceversa.

6) Conclusione: quanto scritto finora può trarre in inganno se non si tiene a mente il punto principale: il partito aperto è consapevolmente imperfetto. Vi troverete geni e cretini, verità ed errori, vittorie e sconfitte, ambiziosi e seguaci, secchioni e fannulloni; per resistervi dovete crescere umanamente e psicologicamente, essere o diventare forti, perché non avrete un partito-mamma a darvi protezione quando vi sentirete soli. Alla lunga non è un partito per vecchi di spirito. E', parafrasando Churchill, solo il meno peggio dei partiti possibili.
                                                                       -oOo-

I SUOI NEMICI non sono solo i partiti chiusi, ma anche l'ignoranza politica e la debolezza psicologica della stragrande maggioranza dei cittadini. Ma per questi ci vorrà un altro post.

lunedì 6 febbraio 2012

società civile: il destino in appalto


29/12/2011 - LA STAMPA
Il destino dato in appalto
di Irene Tinagli

    Non c’è giorno in cui non siamo bombardati da qualche dato negativo su consumi, produzione, povertà ed occupazione.
    È l’immagine, si dice, di un Paese che si impoverisce sotto la scure della crisi e di manovre recessive. In questo scenario è difficile spiegare il dato del 2011 sulla raccolta del settore dei giochi (gratta e vinci, lotterie, lotto, slot machine, scommesse sportive e così via) appena reso noto: 76,5 miliardi di euro. Un aumento rispetto al 2010 di 15 miliardi di euro, ovvero il 24,3% in più. Questo significa che nell’anno della crisi più nera, della disoccupazione giovanile al 30%, dello spread alle stelle e dei tagli indiscriminati, gli italiani hanno speso in giochi e scommesse oltre 1200 euro non a famiglia, ma a testa - includendo nel calcolo persino i neonati! Con un aumento di spesa di circa 250 euro a persona rispetto all’anno precedente. Un dato veramente sorprendente.
    Che l’industria del gioco e delle scommesse sia relativamente più resistente alle crisi rispetto ad altri settori è cosa nota. Così com’è noto che la diffusione dei giochi online e la progressiva liberalizzazione avvenuta in numerosi Paesi (prima tra tutti l’Italia, che negli ultimi anni ha rilasciato migliaia e migliaia di nuove licenze) hanno dato impulso a questo settore a livello globale.
    Tuttavia risultati di queste dimensioni in un Paese come l’Italia, che proprio nel 2011 si è vista quasi sull’orlo del baratro, destano più di un interrogativo. Persino in Gran Bretagna, patria delle scommesse, gli anni della crisi hanno visto un sensibile calo di queste spese (-12,2% nel 2009 e situazione pressoché stazionaria nel 2010).
    Come mai gli italiani spendono in giochi e scommesse non il doppio, e nemmeno il triplo ma otto volte di più di quanto spendono in istruzione? Come mai di fronte alla crisi hanno diminuito i consumi di moltissimi beni, inclusi quelli alimentari, e hanno persino rinunciato ad iscrivere i propri figli all’Università, ma non al gratta e vinci o al lotto? E come mai rivendicano un sistema fiscale e sociale più redistributivo, che tolga ai pochi per dare ai più, e poi si affidano a meccanismi di redistribuzione opposti, in cui i più mettono soldi che verranno elargiti a pochissimi a prescindere dalle loro necessità?
    Non è facile rispondere a queste domande, anche perché dietro al fenomeno collettivo vi sono scelte individuali difficilmente penetrabili e, naturalmente, assolutamente libere e insindacabili.
    L’impressione che ne emerge tuttavia è quella di milioni di persone che si sentono sempre meno padrone del proprio destino, che non sanno o non vedono come poter migliorare la propria posizione, costruire il proprio futuro. E in questo vuoto si affidano, semplicemente, al caso. L’unico fattore che non chieda né impegno né sacrifici ma anche una delle poche cose che non faccia favori a nessuno. Uno dei pochi meccanismi che appare trasparente nella sua totale casualità. Una logica che non dà né per necessità né per merito, ma solo per fatalità.
    Ecco, il pensiero che milioni di italiani ripongano maggiore fiducia nella fortuna come mezzo per risollevare le proprie sorti piuttosto che nelle loro capacità o in quelle dei loro governanti dovrebbe farci riflettere. E farci capire che il grande lavoro di ricostruzione che ci attende nel 2012 non riguarda soltanto le casse dello Stato.



mercoledì 1 febbraio 2012

bioetica: vita e persona





Corriere della Sera, Mercoledì 26 Gennaio 2005, pag. 1 e 13

LE DOMANDE DEI CATTOLICI
EMBRIONI: NON ESISTE L’ORA X
                                   di Edoardo Boncinelli 


Non avrei mai immaginato che qualcuno si potesse interessare tanto al dettaglio cronologico delle prime fasi della formazione dell’embrione. Ma sento e leggo di continue dispute sull’argomento, tanto più accese quanto più confuse.
Ci si chiede quando comincia la vita umana*; se due giorni dopo la fecondazione si può già parlare di essere umano oppure no; oppure se occorre per questo aspettare la fine della seconda settimana; se l’embrione è un individuo in potenza o in atto e via discorrendo.
Antonio Socci, in un’intervista pubblicata dal Corriere lunedì scorso, vuole sapere in quale momento preciso l’embrione diventa essere umano (“Da anni – dice Socci – noi cattolici poniamo una domanda: se l’embrione al primo stadio non è un essere umano, qualcuno dovrebbe dire in quale momento preciso lo diventa e non così, per convenzione, ma con un certo appiglio scientifico”). Si mischiano e si confondono in queste polemiche concetti molto diversi come quello di vita, di essere umano, di concepito, di embrione, di individuo e di persona, umana o giuridica.
Cominciamo con l’inizio della vita di un organismo. Non c’è dubbio che la vita di un organismo specifico – ranocchio, gatto o uomo – inizia con la fecondazione, cioè con la congiunzione di un gamete maschile, lo spermatozoo, e uno femminile, la cellula-uovo o ovocita maturo.
Il processo dura diverse ore, per cui non è facile dire esattamente quando inizi la nuova vita, ma certamente una condizione necessaria per poter parlare di un nuovo organismo è che si combinino tra loro i Dna dei due genomi, quello paterno e quello materno, per dar vita ad un menoma nuovo e molto probabilmente unico.
L’uovo fecondato prende il nome di zigote. E’ una singola cellula, ma si mette subito in moto per duplicarsi e dare due cellule, poi quattro, poi otto, poi sedici. Fino a questo punto ha la forma di una minuscola mora e prende non a caso il nome di morula. A partire dallo stadio di 32 cellule, all’interno della massa compatta della morula si forma una minuscola cavità. Si è passati così allo stadio di blastula o più precisamente di blastocisti. Il numero di cellule continua a crescere, anche se lentamente; la cavità s espande e verso il quarto giorno comincia a vedersi una masserella di cellule. Questa masserella è chiamata massa cellulare interna dagli autori anglosassoni mentre da noi viene detto in genere embrioblasto o, in una fase leggermente più avanzata, bottone embrionale. Da questa masserella e solo da questa trarrà origine il futuro embrione, mentre tutto quello che c’era prima e che c’è intorno ad essa a questo stadio contribuirà soltanto a formare le membrane delle quali l’embrione avrà bisogno per nutrirsi durante la gestazione, ma che alla fine del parto verranno gettate via. Occorre notare che questa caratteristica riguarda solo i mammiferi, mentre non ha l’uguale in altre categorie di animali. Sarebbe molto interessante soffermarsi su questa osservazione, ma non è ora il caso. Può accadere in questo stadio che all’interno della stessa blastocisti, di masserelle cellulari interne se ne formino due (o tre) invece di una sola. In questo caso si giungerà ad avere due (o tre) gemelli, cosiddetti identici, invece di un solo individuo.
Fino a questo punto tutto è avvenuto all’interno della tuba e la blastocisti è ancora libera di vagare. Non sopravvivrebbe però a lungo se non si impiantasse, attraverso una complessa successione di eventi, nel tessuto dell’utero materno, dal quale trarrà d’ora in poi il nutrimento. La fase dell’impianto nell’utero è una fase molto critica, passata la quale la blastocisti ce l’ha quasi fatta e l’embrioblasto che quella contiene può cominciare a nutrire qualche fiducia nella possibilità di dar luogo ad un bambino o ad una bambina.
E’ bene notare però che al suo interno l’embrioblasto non ha ancora una minima traccia di polarità. Non sa ancora, in parole povere, dove avrà la testa e dove la coda. I primi segni di questa polarità testa-coda compaiono all’interno dell’embrioblasto verso la fine della seconda settimana di gestazione. A circa tredici giorni si comincia a distinguere un asse corporeo principale e il giorno successivo, il quattordicesimo, i primi tenui segni di un sistema nervoso centrale e di una struttura spinale. A questo stadio il bottone embrionale, lungo poco più di un decimo di millimetro, comincia progressivamente a prendere la forma definita di embrione. Compariranno ancora altri organi e tutti quanti dovranno crescere di dimensioni e maturare,  ma lo schema generale del corpo è già lì. Sullo sfondo di questa successione di eventi possiamo ora porci domande più specifiche.
Quando comincia la vita? Senza voler cavillare che la vita è cominciata una volta sola quasi quattro miliardi di anni fa, possiamo affermare, come già detto, che la vita di un particolare organismo comincia in condizioni normali con la fecondazione, cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno. Non è un processo istantaneo per cui non ha senso chiedersi esattamente il momento di questa unione. Lo zigote così ottenuto è un individuo? E, soprattutto, è un individuo la morula di otto o sedici cellule presente il giorno dopo, cioè il secondo giorno di gestazione, quando si può eseguire, volendo, una diagnosi reimpianto? E’ certamente un progetto di individuo, ma lo diverrà effettivamente soltanto nel 15-20% dei casi, perché la maggioranza delle morule non porterà, anche in condizioni normali, a nessun embrione e una percentuale non trascurabile di queste porteranno a due o più embrioni. E’ bene notare che è una fortuna che non tutte le morule giungano a dare un embrione. Si tratta infatti di un fondamentale “periodo di prova” durante il quale le morule che potrebbero dar luogo a embrioni difettosi vengono “saggiate” dalla natura e eventualmente scartate.
Quando comincia l’embrione? Se per embrione intendiamo l’insieme delle parti che formeranno il suo corpo, queste non compaiono prima del quarto-quinto giorno. Prima non ci sono e fino al dodicesimo giorno sono assolutamente informi.
Quando è che l’embrione è un essere senziente? Non lo sappiamo con certezza, ma è difficile pensare che ciò possa accadere, anche solo potenzialmente, prima della comparsa di una minima traccia di sistema nervoso, comparsa che si registra il quattordicesimo giorno.
Quando è che un embrione diventa persona e come tale gode dei diritti scritti e non scritti spettanti ad una persona? Questa è una domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale e qui mi fermo. Ma non senza aver notato che alla fin fine è questa l’unica domanda rilevante, alla quale tutti siamo chiamati a dare una risposta, anche provvisoria e rivedibile. Per noi e per i nostri figli.
Dal punto di vista biologico non c’è nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita e oltre. Questo non significa che non si possano porre degli spartiacque, come quando si è deciso che a 18 anni una persona è maggiorenne. Non succede niente di particolare a 18 anni, ma la convenzione umana ha fissato questo limite e a volte lo ha anche cambiato. Una convenzione, appunto. Non possiamo chiedere alla natura o alla scienza di cavare le castagne dal fuoco al posto nostro. Occorre prenderci le nostre responsabilità e fissare dei limiti che non potranno che avere una componente di convenzionalità. D’altra parte è una scelta che spetta all’uomo in una autentica prospettiva umanistica.

*ndr: il grassetto non è nell'originale