sabato 26 aprile 2014

perché non sono francescano

   26apr2014 - Sono stati in molti a festeggiare il fatto che a seguire i due pontificati di Woitila Superstar e di Taliban Ratzinger sia finalmente arrivato al soglio pontificio Bergoglio, un uomo apparentemente semplice, tanto semplice da autoribattezzarsi Francesco. Io mi sono limitato ad un più sobrio sospiro di sollievo, fermamente convinto come sono dell'irrecuperabilità di ciò che a Francesco sta dietro e davanti: non alludo alla Religione, ma alla Chiesa Cattolica.
   A seguire riporterò letture e riflessioni a sostegno della mia convinzione che tale istituzione, non essenziale alla religione cui si ispira, sia destinata ad una inesorabile - e sia pur lentissima e altalenante - agonia, seguita dalla fine, sia nella forma che nella funzione storicamente ricoperta. Voglio cominciare con una riflessione di molto tempo fa, forse i primi anni '80 del secolo scorso, sulla tolleranza e sulla speranza.

   << ....E' una domanda che ho fatto anch'io (c'è ancora, l'inferno?) trovandomi recentemente a un convegno in cui cattolici e no si discuteva sul tema della speranza. Il convegno si svolgeva in campo cattolico; e affermazioni che appena quindici anni fa avrebbero fatto segnare di croce come di fronte a una manifestazione del Maligno ogni buon cattolico italiano, e magari scatenato la più massiccia insofferenza, venivano recepite senza batter ciglio e qualche volta con larga approvazione.
   Mi pareva di sognare. Ma alla meraviglia, man mano che si andava avanti, subentrava il dubbio, il dilemma: stavo assistendo al realizzarsi della tolleranza o all'avvento della confusione? Quella platea di preti, di professori, maestri e studenti delle rispettive associazioni cattoliche, avevano finalmente raggiunto l'umana e laica verità che Montaigne enunciava nella stupenda formula che "dopotutto significa dare un bel peso alle proprie opinioni se per esse si fa cuocere vivo un uomo", o semplicemente non avevano più opinioni?
   Che il mondo cattolico, di cui il convegno offriva una sezione sufficientemente rappresentativa, avesse rinunciato a usare "il Crocifisso come corpo contundente" (così Gide a Claudel, in quell'epistolario da cui Gide vien fuori infinitamente più cristiano di Claudel) mi pareva e mi pare un fatto positivo e rallegrante; ma a patto che il Crocifisso, finendo di essere un'arma, sia una presenza viva e inquietante, una passione, una "agonia". L'agonia di Pascal: "Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo; e sino allora non si potrà più dormire"; l'agonia di Unamuno.
   Ecco: la fine del mondo. Ma non se ne parlava. Ecco: la morte. Ma in due giorni non ho mai sentito questa parola cadere, anche incidentalmente, nei discorsi che si sono fatti. E a dire che i discorsi prevalentemente si muovevano su un piano teologico, dottrinario, esegetico. Ma forse appunto per questo.
   E sarà magari, la mia, dall'esterno, una domanda reazionaria (quasi tutte le domande cominciano ad esserlo): ma che cosa resta del Cristianesimo senza il pensiero della morte, della fine del mondo? Soltanto una ideologia del pauperismo abbastanza confusa, abbastanza contraddittoria. Tanto confusa, tanto contraddittoria, che coloro che la professano dimenticando la morte e la fine del mondo, ansiosamente tendono a fonderla in altra più precisa, più conseguente, più "scientifica" ideologia >>

   <<Ovviamente che i cattolici voltino le spalle alla contemplazione della morte e della fine del mondo, che aboliscano i divieti e sconnettano le repressioni, non me ne importa poi molto. Ma certi effetti che ne discendono mi inquietano e mi preoccupano. E per esempio: la frenetica corsa alle "scienze" sociologiche. E mi ha dato apprensione, ed ha aggiunto timori e dubbi a quelli che già avevo, il fatto che un'assemblea di cattolici non ha reagito all'affermazione che "la Chiesa è contro la speranza", mentre si è agitata alla citazione di quelle due battute tra un deputato cattolico e un deputato laico che Anatole France riporta nel suo - da noi poco noto - opuscolo "L'église et la République": "Ammettete che la religione è d'ordine privato, di coscienza individuale, e ci intenderemo facilmente sul resto", dice il laico. "Mai! Capite? Mai! La religione cattolica, d'ordine privato? D'ordine sociale, signore, d'ordine sociale e di autorità", risponde il cattolico.
   Chi citava le battute di Anatole France pensava che la prima dovesse ormai suonare senza scandalo. E invece, se non proprio scandalo, un certo allarme ancora lo suscitava.>>                                  Leonardo Sciascia, Nero su Nero, Einaudi ed.

26apr2014 - A proposito dell'opinione di molti cattolici e della quasi totalità della Curia (e della totalità degli "atei devoti") circa la missione "d'ordine sociale e d'autorità" - cioè politica - della Chiesa Cattolica, e della tentazione di fonderla con quella ben più strutturata di un particolare partito politico, riporto una testimonianza riportata da Sciascia su un episodio del 1968, dopo il tragico terremoto del Belice.
   <<A Montevago, a Santa Ninfa, qualche giorno dopo il terremoto, la gente quasi aveva dimenticato l'orrore di quella notte e ormai soltanto si lamentava della disorganizzazione, delle storture e lungaggini burocratiche, delle infami speculazioni che già sorgevano. Raccontava episodi, faceva nomi. Ad ogni nome di burocrate incapace, di politico speculatore, un tale vestito di scuro, magro, d'accento settentrionale, rivolgendosi a chi dalla faccia e dai vestiti gli pareva non fosse del luogo, domandava: "Ma perché non lo linciano?" col tono meravigliato di chi scopre che una cosa del tutto ovvia in Lombardia o in Toscana, in Sicilia non si praticava. Mi dava un po' fastidio. Ho domandato chi fosse. Ebbene, era un prete.>>
                                                          Leonardo Sciascia, Nero su Nero, Einaudi ed.

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