Il complottismo è un antico meccanismo psicologico che, benché conosciuto da secoli, continua a non destare alcun ridicolo nel senso comune: al massimo, in alcuni, un po' di cauto scetticismo. Un paio di secoli fa (citando uno scritto di un secolo prima sulle torture agli untori della peste a Milano di un'altro secolo precedente: e siamo al 1628) Alessandro Manzoni osservava come ".....gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza (che la diffusione del morbo fosse opera di untori - ndr): ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno (P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica.....), le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi............Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. (A. Manzoni - I promessi sposi - Cap. XXXII).
Nello sviluppo di un boom complottistico si nota l'improvvisa apparizione di un'indignazione di massa per l'esplodere di un problema che qualsiasi persona ragionevole avrebbe potuto scorgere, affrontare e risolvere con un anticipo di anni se non di decenni, invece di aspettare che la matassa s'ingarbugliasse a tal punto da diventare inestricabile. Una tale tardiva indignazione fa sì che non sia più possibile rimediare al problema, oppure solo a carissimo prezzo per tutti: di qui la trasformazione dell'indignazione ormai impotente in rabbia pura, quella che offusca ancor più la mente.
Piuttosto che ammettere almeno un proprio concorso di colpa, la folla individua una o più categorie di umani (famosi gli zingari, gli ebrei, i banchieri, gli immigrati, gli americani, i meridionali, i musulmani, gli israeliani......e via fantasticando) su cui scaricare la propria rabbia convincendosi che quel problema non è il frutto di una causa di forza maggiore, del DNA di homo sapiens, di un deficit di conoscenza, dell'inesattezza delle scienze umane, della paura per il diverso, ma di un sordido complotto di altri umani mossi, diversamente da noi, da intenzioni egoistiche e malvagie.
Sono ben cosciente che non tutti i nostri mali sono di origine naturale, e che quelli che più indignano hanno origini esclusivamente umane, come la mala politica, i suoi costi, la speculazione finanziaria, l'ingiustizia sociale e via dicendo, ma la mia critica è diretta a due caratteristiche della reazione popolare: la prima è l'incapacità di distinguere l'origine del male, da cui il "piove, governo ladro!", la seconda è la tendenza ad associare qualsiasi male non all'incapacità della classe dirigente, ma, appunto, ad una cospirazione. Un esempio: quando Beppe Grillo scrive "i media sono pagati dai partiti" non solo dice una cosa quanto meno inesatta, ma soprattutto fa un errore d'ignoranza o d'ingenuità: i giornalisti non hanno alcun bisogno che i partiti li paghino per dargli addosso, lo fanno spontaneamente; il che è molto più difficile da combattere di un plateale fenomeno di corruzione, e tale realtà è perciò molto più difficile da estirpare.
Con tale meccanismo psicologico ci si assolve dal dovere civico della pre-occupazione per il domani della propria comunità e si può continuare a restare sudditi piuttosto che cittadini: basta avere abbastanza capri espiatori tra i tanti che, appena un po' più colpevoli, hanno approfittato della negligenza dei sudditi. Un bel repulisti una volta ogni morte di papa e il gioco ricomincia: tra le macerie.
prove dell'indegnità di Homo Sapiens per il suo pomposo nome
domenica 6 novembre 2016
domenica 5 ottobre 2014
onore delle armi
Ugo Sposetti è, secondo me, il più puro, sincero e leale rappresentante di quei "duri a morire" (come il giovane liberale John M. Keynes definiva i vecchi liberali del suo tempo) che non concepiscono altra forma-partito che quella clerico-leninista, o partito-chiesa, a cui io addebito la forma partitocratica assunta dal postfascismo (vedi Etica e Politica - Partitocrazia: http://rottamatoio.blogspot.it/2011/12/pillolone-1-democrazia-senza-etica.html ): "...Quando nel 1948 - complice lo scoppio della guerra fredda - iniziò la prima legislatura, fu subito chiaro che non sarebbe stato così: partiti a struttura clientelare e partiti a struttura leninista, finalmente liberi da pastoie liberaliste, assunsero definitivamente la forma di partito-chiesa, con le sue parrocchie, le sue sezioni, le sue cooptazioni di fideisti, i suoi giuramenti di fedeltà e conseguenti tribunali dell’inquisizione (detti probiviri), in cui vige l’esame di ammissione perché la responsabilità non è individuale ma l’indegnità di ogni iscritto infanga tutta la comunità di santi, ogni distinguo è un indizio di eresia, ogni dissenso un tradimento. A partire dai parlamentari, vincolati alla disciplina di partito, of course. Il finanziamento pubblico sancì l’avvenuta statalizzazione della politica."
Debbo tuttavia ammettere che la coerenza e l'orgoglio con cui Sposetti vive la sua fede partitocratica (di cui il mai sufficiente finanziamento pubblico non è stato certo la conseguenza più catastrofica) lo rende degno dell'onore delle armi nel momento del suo auspicato ma non sicuro tracollo. Godetevi questa bella intervista; *le note in corsivo celeste sono mie.
Debbo tuttavia ammettere che la coerenza e l'orgoglio con cui Sposetti vive la sua fede partitocratica (di cui il mai sufficiente finanziamento pubblico non è stato certo la conseguenza più catastrofica) lo rende degno dell'onore delle armi nel momento del suo auspicato ma non sicuro tracollo. Godetevi questa bella intervista; *le note in corsivo celeste sono mie.
http://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_Sposetti
Alessandro De
Angelis - huffingtonpost.it 03/10/2014
Flop tessere Pd, intervista a
Ugo Sposetti: "Che sofferenza questi dati. Il partito è stato
umiliato"
D - Renzi dice: “C’è a chi piace un partito con
400mila iscritti ma al 25 per cento”.
R - (voce
ironica) Il segretario dice che si va avanti così. Facciamo come dice
Renzi.
D - Ma scusi Sposetti, io non capisco queste
polemiche sul flop delle tessere. In fondo, sono anni che si parla di partito
all’americana e partito liquido. E Renzi l’ha fatto.
R - Non diciamo sciocchezze. Il partito
all’americana non è così. Se vogliamo fare un discorso serio, iniziamo col dire
che il partito democratico americano non è liquido, anzi è organizzato eccome *(ma non è a modello clerico-leninista
europeo).
Che cosa ha fatto
Obama? Ha preso il palazzone a Chicago, quello che chiamano “la Bestia”, e ci
ha messo 2000 persone. Duemila, ha capito? Quelle persone sanno tutto del
partito, dell’organizzazione, dei dati alle elezioni in ogni contrada.
D - Va bene, non sarà all’americana ma il Pd dai
dati pare molto liquido.
R - I dati sono la
conseguenza di una serie di errori commessi sulla vita democratica. Domando io:
come si organizza la vita democratica? Mi si dice che non siamo più agli anni
Cinquanta, e che i partiti come li stabilisce l’articolo 49 della Costituzione
non ci possono essere più. Dico, benissimo. Se lo argomenti bene, ma poi di
devi spiegare come lo scrivi. La verità è che le difficoltà dei partiti e dei
sindacati stanno nel non aver dato attuazione nell’articolo 49 e 39 della
Costituzione. *(ma quello liquido non è l’unica alternativa
al partito clerico-leninista).
D - E invece è successo l’opposto.
R - Ecco. Le faccio un
esempio simbolico. Siamo a gennaio 2008, il segretario dice: “Non ci saranno
più le feste dell’Unità ma quelle democratiche”. È il momento in cui “basta
comunisti” e “serve una rottura". Le feste si chiamano in cento modi
diversi: dell’Unità, Democratiche dell’Unità, Democratiche, ma chi andava a quell’appuntamento
estivo, uscendo da casa diceva: vado alla festa dell’Unità. Dico questo perché
la storia non la cancelli, come non cancelli il sentimento di un popolo. Ora
Renzi dice: rifacciamo le feste dell’Unità. E può utilizzare il marchio perché
c’è stato un cretino, il sottoscritto, che ha continuato a pagare la
registrazione di festaunita.it e il logo. *(domanda retorica:
con “il sottoscritto” intende con i suoi soldi o con quelli dei DS, cioè
del finanziamento pubblico, cioè di tutti noi?)
D - Sposetti, traduco il messaggio. Lei dice:
esiste un popolo, una storia. E i dirigenti hanno giocato e giocano con
leggerezza con questa storia. Però scusi, il popolo non si tessera più.
R - Ma lei pensa che si
governa il partito con gli hashtag, i tweet e quelle cose che non io ricevo e
quindi non leggo? Che cosa è un partito: che chi non ha twitter sta fuori?
Quindi io sto fuori?
D - Parliamo del flop delle tessere.
R - Parliamone. Le
regole non l’ho mai capite. Dal 2008 statuto e regolamento finanziario
stabiliscono che la tessera la vai a prendere nel tuo circolo dando 20 euro.
Non capisco. Con 20 euro non puoi costruire dentro di te, nel tuo animo, nel
tuo sentire, l’appartenenza a una comunità (1*) che lotta. Se sei disoccupato,
un precario, capisco. Ma se viene lei, che fa il giornalista, io con 20 euro,
la tessera, non gliela do.
D - Ci vuole motivazione.
R - La tessera è una
cosa importante, è un simbolo in cui si riconosce una comunità (1*), è come la
bandiera per uno Stato. Tu partito devi dargli un valore. Sennò chi glielo dà
un valore? E non voglio parlare della storia dei due euro alle primarie per il
segretario nazionale, il segretario regionale, il segretario provinciale… *(ma le primarie sono una cosa seria solo in un sistema
elettorale a collegi uninominali).
D - È solo una questione di regole o è una
questione politica?
R - Le due cose si
intrecciano. L’appartenenza è stata umiliata. In questi anni abbiamo compiuto
degli atti. Si è detto: vieni qui, dammi venti euro e io do la tessera. Si è
detto che la vita democratica coincide con le primarie. Io invece voglio
ascoltare l’artigiano, il professionista, il precario, questa è la vita di
partito *(e come? con le sezioni di quartiere??).
E per ricostruire una vita democratica la prima condizione è il clima.
D - Si riferisce alle bastonate di Renzi verso la
minoranza interna?
R - Lasciamo stare i
bastoni. Ma non sono accettabili i toni verso chi ha un dissenso manifestato
nelle sedi deputate a discutere. Ma come si fa a far scrivere dai giornali, e
senza smentita alcuna, frasi come “io li asfalto, io li frego” riferite a chi
non è d’accordo? Chi dissente non può essere trattato così. Noi dobbiamo
ricostruire innanzitutto un clima. Io ho la 45esima tessera in tasca e sono un
uomo di partito. E dico: abbassate i toni.
D - Partito significa disciplina. Voi sul jobs
act al Senato vi adeguerete alle decisioni della direzione, come chiede Renzi?
R - La direzione,
facendo sfracelli contro una minoranza, ha deciso che il governo presenterà un
emendamento per correggere il governo. Giusto? Mi spiego meglio: il documento
della direzione dice che il governo correggerà se stesso presentando un
emendamento. E adesso al Senato stiamo aspettando.
D - Lo votate o no?
R - Che cosa? Io
aspetto. Forse non mi sono spiegato. Che cosa devo votare che non c’è ancora
niente. Quello che arriverà? La vita parlamentare è fatta di testi scritti.
D - Torniamo al concetto di partito.
R - Spinti dalla piazza,
in questi anni è iniziato un percorso che non porta a risultati *(e il 40,8% del 25
maggio?). Ora, io ho messo in cassa integrazione i dipendenti dei ds
che hanno scavato il pozzo perché il Pd prendesse acqua da quel pozzo. Ci vuole
rispetto. L’attuale gruppo dirigente deve iniziare a rispettare quelli che
hanno scavato il pozzo. E ricordare che i 1800 circoli del Pd si riuniscono in
sedi che i malvagi comunisti hanno costruito negli anni ’50 e ‘60 *(le tre sezioni PCI che ricordo nella mia infanzia romana –
Testaccio, Ostiense e San Saba – erano ospitate gratis nelle case
dell’ICP – Istituto Case Popolari) e che malvagi dirigenti dei ds hanno
messo a disposizione del Pd. Non mi si parli di generosità.
D - Diciamoci la verità: il Pd di Renzi ha già
cambiato pelle. E siamo già oltre.
R - Questo lo dice lei.
Quando vedo questi dati, questi toni, io soffro. Oggi sono stato ad Ancona,
domani vado a Venosa a una casa del Popolo intitolata a un giovane bracciante
ucciso dalle forze dell’ordine a 22 anni perché faceva lo sciopero a rovescio.
Ovvero lavorava senza prendere un salario. Dico: quel bracciante ci ha dato un
messaggio o no? (come se il partito di cui Sposetti sente
nostalgia avesse mai esortato la sua “comunità” (1*) a seguire quell’esempio).
D - Allora, proviamo a trarre una conclusione dal
ragionamento. Di fronte a un partito come lo descrive lei, uno che è di
sinistra può sentirsi spinto a fare un altro partito.
R - Se non stavi al
telefono ti mettevo le mani al collo. Voi ne parlate. Scindetevi voi! A me non
si deve neanche porre la domanda. La scissione non si farà.
D - Questa è una
notizia. Con Renzi dunque siete ancora compatibili.
R - Non devo avere la
compatibilità con nessuno, perché una comunità (1*) è fatta di tante cose
diverse, sennò non sarebbe una comunità. Io pretendo una discussione decorosa.
E continuo a girare l’Italia a parlare dei valori della sinistra italiana.
Punto.
(1*) - Faccio notare come
Sposetti dia sempre al termine “comunità” un senso di parte e mai di intera
comunità nazionale. Chissà se si accorge di avere ancora dentro quella cultura
medievale di guelfi e ghibellini che impedisce all’Italia di essere una nazione
e a noi di essere un popolo? Vuole proprio "essere come tutti", per dirla con Francesco
Piccolo?Punto.
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giovedì 2 ottobre 2014
quattro cani e un gatto
Tra i mille pregiudizi diffusi nel senso comune, quello dell'odio tra cani e gatti ha sempre fatto a pugni con molte mie esperienze del contrario. Ma ci voleva un grande scrittore siciliano come Leonardo Sciascia per raccontare una sua esperienza vissuta di campagna con il tono e la leggerezza di una favola. Eccola:
"Sono come cani e gatti, si dice. Ma da un mio
vicino, qui in campagna, ci sono quattro cani e un gatto che non la fanno da
cani e gatti; e non solo pacificamente convivono, ma fanno di tutto, i cani,
per non guastare al gatto l’illusione, che drammaticamente coltiva, di essere
un cane. Ma è tutta una storia: e mi piacerebbe saperla scrivere come Cecov
scrive quella della cagnolina Kastanka.
Comunque, i dati sono questi: rimasto orfano
e sopravvissuto ai fratelli, il gatto è stato allattato dalla cagna, alla quale
era stato lasciato uno solo dei figli; crebbe ruzzando col suo fratello di
latte, e trattato come lui dalla cagna che lo aveva allattato e dagli altri due
cani. Nessuno gli contestò mai il posto a tavola, cioè intorno al vaso di
coccio in cui viene loro servito il rancio, né l’osso da spolpare. Mai un
ringhio, verso di lui; tanto più tolleranti anzi con lui, i cani, che tra loro.
Il cane di Trilussa dice: «co’ tutto che sapevo ch’era un gatto cercavo de
trattallo da cane».
Questi cani hanno invece trattato il gatto
molto meglio di un cane, subendone l’infaticabile vivacità e i capricci. Ma il
punto è questo: che hanno sempre saputo che è un gatto. Il gatto, invece, non
sa di essere gatto. Si crede un cane. E a volte un cane menomato; a volte un
cane virtuoso, di un virtuosismo agli altri cani inaccessibile. Ma che faccia
il cane reprimendo i miagolii e andando dietro al padrone, mostrandosi come i
cani festoso quando il padrone viene fuori col fucile, o che si abbandoni a un
exploit da gatto arrampicandosi ad un albero fino alla cima, il suo è un
dramma. E c’è da credere ne abbia toccato il fondo quest’anno, il giorno
dell’apertura di caccia.
E’ andato anche lui dietro al padrone, alla
partenza facendo di tutto per essere allegro come i cani, saltellando,
correndo. Ma poi si è stancato, si è annoiato, si è messo in disparte. E finì
con lo sperdersi. Non tornò a casa, la sera. I cani, che non erano più riusciti
a badargli, presi com’erano stati dal piacere della caccia, al ritorno ne
avranno notata l’assenza e forse se ne saranno fatti un rimorso. E’ possibile
siano andati a cercarlo.
Fatto sta che l’indomani sera il gatto era
tra loro: i cani in festa intorno a lui, e specialmente il suo fratello di
latte. Ma il gatto mostrava una controvoglia, ai giuochi cui l’invitava il
fratello, una indifferenza, una malinconia. Forse aveva capito di non essere un
cane, e che gli altri pietosamente lo ingannavano trattandolo da cane. E
continua a vivere come prima, ma con una certa stracchezza e noncuranza, come
improvvisamente invecchiato. «Se non sono un cane, in nome di Dio, che cosa
sono?», sembra domandarsi, standosene in disparte, adagiato su una sedia: da gatto."
Leonardo Sciascia - Nero su Nero (Einaudi Ed. - 1979)
mercoledì 20 agosto 2014
un popolo allo specchio
Guardandoci allo specchio
http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_10/guardandoci-specchio-0df5d698-2055-11e4-b059-d16041d23e13.shtml
A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera.
È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).
Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?
In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.
In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori. A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.
Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» (vedi nota *- ndr) ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.
La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.
Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 10 agosto 2014
(nota*) - “La domanda giusta da porsi non è mai: Chi deve governare? Bensì: Come possiamo organizzare le istituzioni politiche per impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”
Karl R. Popper
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sabato 26 luglio 2014
laissez faire e liberismo
A conferma dell'osservazione che Leonardo Sciascia, ma non solo, faceva sulla "doppiezza" che da secoli caratterizza la cultura nazional popolare italiana ("non c'è cosa o azione nel nostro paese che non sia viziata dalla doppiezza..."), faccio notare come neanche le parole sfuggano a questo destino, fino a generare una totale insicurezza sul loro significato.
Si pensi al destino di termini come "politico", che da "servitore della comunità" è diventato un insulto: "ladro". O come pedofilo [dal greco παις, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto)], da "persona che ama i bambini" è diventato sinonimo di "orco che li violenta"; fu per questo che mi passò la voglia di fare il filantropo, da grande: sarebbe arrivato un giorno in cui sarei stato preso per un cannibale! Nel campo dell'economia poi, l'aggettivo "grande" è del tutto scomparso, sostituito da "importante": qualche giorno fa in TV mi aspettavo che un esperto di finanza che ne aveva ampiamente abusato si scusasse per aver avuto "un importante starnuto".
Non c'è perciò da stupirsi se sorte analoga sia toccata a "liberismo", termine che nella vulgata corrente viene confuso con il "laissez faire" in uso nei paesi anglosassoni, nato in antitesi a protezionismo. Ma mentre "laissez faire" sta ad indicare un'assenza assoluta di intervento statale in economia, e cioè una pratica scomparsa almeno da quando le banche centrali cominciarono a vendere obbligazioni e stampare nuova moneta per finanziare imprese economiche senza entrate fiscali, nel mondo anglosassone il limitato uso di queste "novità" fu accettato senza il bisogno di neologismi. In quello europeo continentale, e in primis in Italia, fu coniato invece il termine "liberismo" da Benedetto Croce che in polemica con Luigi Einaudi sosteneva che il termine liberalismo non presupponeva necessariamente il diritto di proprietà e di iniziativa economica; idea, questa, assolutamente sconosciuta per secoli dove il liberalismo era nato.
Come se non bastasse, anche se ormai da quasi un secolo John M. Keynes ha dimostrato (e poi la necessità ha imposto ovunque) che l'intervento dello Stato, se limitato in ampiezza e durata, può facilitare l'uscita dalle fisiologiche crisi del sistema capitalista, qui da noi la semplice constatazione che il 55% del PIL annuale gestito dallo Stato è una violenza alla teoria keynesiana viene fatalmente etichettata con nuovi e terrorizzanti neologismi: neoliberismo, liberismo selvaggio, austerità....
Da una vita cerco invano di convincere amici pur intelligenti (e convinti di non avere una cultura precapitalista di stampo cattolico) che la vita e le opere di liberisti illustri come Luigi Einaudi o Ernesto Rossi (Abolire la miseria) stanno lì a dimostrare che i liberisti sono tutt'altro che gretti egoisti dediti solo ai propri interessi materiali. A loro attenuante, questi miei amici hanno solo l'avvenuta appropriazione dell'aggettivo in questione da parte di quasi tutti i nostri imprenditori, pseudocapitalisti mungitori di risorse statali; appropriazione, bisogna dirlo, consentita dalla mancanza di anticorpi sani nella nostra cultura nazional-popolare.
Continuo la mia predica al vento proponendo alla vostra attenzione questo ottimo articolo, spaziante nei campi della politica, dell'economia, dell'energia e dell'ambiente:
http://derrickenergia.blogspot.it/2011/11/einaudi-la-raffinazione-e-i-salvataggi.html
Einaudi, la raffinazione e i salvataggi industriali
martedì 15 novembre 2011
“Uno dei fattori più efficaci del successo, della prosperità e dell' attitudine delle imprese economiche a dare ai lavoratori la massima occupazione possibile è la sanzione del fallimento per le imprese male gerite. Sembra in ogni caso difficile dimostrare che il miglior sistema di garantire dalla fame i lavoratori sia di accollare siffatta responsabilità a singole imprese, invece che alla collettività”.
Questo è Luigi Einaudi che nel 1954 risponde a una nota di Piero Calamandrei in cui quest’ultimo teorizzava la dicotomia tra il “diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Einaudi nella sua risposta – pubblicata dal Corriere della Sera del 22 ottobre scorso e disponibile sul web – nega la dicotomia, visto che nega che siano le aziende a dover fare welfare. Le aziende, si potrebbe volgarizzare, devono fare i soldi, nell’alveo di regole e legalità, contribuendo con le tasse alla redistribuzione dei redditi, compito questo invece dello Stato. Dunque non dicotomia tra successo imprenditoriale privato e welfare, ma interdipendenza.
Se non mi sono perso l’articolo del Corriere è grazie a un altro giornale, Quotidiano Energia, che ha pubblicato il 28 ottobre un pezzo di Diego Gavagnin che commenta le richieste di Unione Petrolifera in termini di protezione sul mercato europeo dei prodotti petroliferi raffinati. Mercato difficile perché da un lato i consumi hanno iniziato a flettere, dall’altro c’è la concorrenza dei biocarburanti.
Inciso: qualche giorno fa The Wall Street Journal Europe dava conto dei primi casi di utilizzo di biocombustibili sui jet commerciali, in un articolo il cui titolo con un gioco di parole diceva che le aviolinee “are frying high” (stanno friggendo alto), anziché “flying high” (volando alto). In riferimento all’olio commestibile per frittura che ricondizionato è un biocombustibile.
Ora, la crisi della raffinazione italiana non è forse un caso di “impresa male gerita”, per usare l’espressione di Einaudi. Bensì di eccesso di capacità a fronte di concorrenza di altre fonti e contrazione della domanda di combustibili. Un caso come tanti nell’evoluzione economica e tecnologica. Gavagnin dubita che una protezione del settore renderebbe più ricca non solo la collettività, ma anche lo stesso settore, che se protetto perderebbe competitività. E fa l’interessante parallelismo con l’industria nucleare francese – a lungo protetta – che ora, scrive Gavagnin - non è più in grado di sostituire i vecchi impianti che stanno per cessare la produzione.
Affermazione forte, che non ho gli elementi per approfondire ora, ma su cui proverò a lavorare in qualche Derrick futuro. Ciò che per ora è lampante è che la tecnologia sostanzialmente francese dell’EPR, European Pressurized Reactor, non è per ora stata in grado di portare alla luce nessuna creatura. La prima prevista, il famigerato impianto di Olkiluoto in Filnadia, in grave ritardo di realizzazione, ha appena ammesso un nuovo aumento dei costi, ormai previsti quasi doppi rispetto ai preventivati.
Si pensi al destino di termini come "politico", che da "servitore della comunità" è diventato un insulto: "ladro". O come pedofilo [dal greco παις, παιδός (bambino) e φιλία (amicizia, affetto)], da "persona che ama i bambini" è diventato sinonimo di "orco che li violenta"; fu per questo che mi passò la voglia di fare il filantropo, da grande: sarebbe arrivato un giorno in cui sarei stato preso per un cannibale! Nel campo dell'economia poi, l'aggettivo "grande" è del tutto scomparso, sostituito da "importante": qualche giorno fa in TV mi aspettavo che un esperto di finanza che ne aveva ampiamente abusato si scusasse per aver avuto "un importante starnuto".
Non c'è perciò da stupirsi se sorte analoga sia toccata a "liberismo", termine che nella vulgata corrente viene confuso con il "laissez faire" in uso nei paesi anglosassoni, nato in antitesi a protezionismo. Ma mentre "laissez faire" sta ad indicare un'assenza assoluta di intervento statale in economia, e cioè una pratica scomparsa almeno da quando le banche centrali cominciarono a vendere obbligazioni e stampare nuova moneta per finanziare imprese economiche senza entrate fiscali, nel mondo anglosassone il limitato uso di queste "novità" fu accettato senza il bisogno di neologismi. In quello europeo continentale, e in primis in Italia, fu coniato invece il termine "liberismo" da Benedetto Croce che in polemica con Luigi Einaudi sosteneva che il termine liberalismo non presupponeva necessariamente il diritto di proprietà e di iniziativa economica; idea, questa, assolutamente sconosciuta per secoli dove il liberalismo era nato.
Come se non bastasse, anche se ormai da quasi un secolo John M. Keynes ha dimostrato (e poi la necessità ha imposto ovunque) che l'intervento dello Stato, se limitato in ampiezza e durata, può facilitare l'uscita dalle fisiologiche crisi del sistema capitalista, qui da noi la semplice constatazione che il 55% del PIL annuale gestito dallo Stato è una violenza alla teoria keynesiana viene fatalmente etichettata con nuovi e terrorizzanti neologismi: neoliberismo, liberismo selvaggio, austerità....
Da una vita cerco invano di convincere amici pur intelligenti (e convinti di non avere una cultura precapitalista di stampo cattolico) che la vita e le opere di liberisti illustri come Luigi Einaudi o Ernesto Rossi (Abolire la miseria) stanno lì a dimostrare che i liberisti sono tutt'altro che gretti egoisti dediti solo ai propri interessi materiali. A loro attenuante, questi miei amici hanno solo l'avvenuta appropriazione dell'aggettivo in questione da parte di quasi tutti i nostri imprenditori, pseudocapitalisti mungitori di risorse statali; appropriazione, bisogna dirlo, consentita dalla mancanza di anticorpi sani nella nostra cultura nazional-popolare.
Continuo la mia predica al vento proponendo alla vostra attenzione questo ottimo articolo, spaziante nei campi della politica, dell'economia, dell'energia e dell'ambiente:
http://derrickenergia.blogspot.it/2011/11/einaudi-la-raffinazione-e-i-salvataggi.html
Einaudi, la raffinazione e i salvataggi industriali
martedì 15 novembre 2011
“Uno dei fattori più efficaci del successo, della prosperità e dell' attitudine delle imprese economiche a dare ai lavoratori la massima occupazione possibile è la sanzione del fallimento per le imprese male gerite. Sembra in ogni caso difficile dimostrare che il miglior sistema di garantire dalla fame i lavoratori sia di accollare siffatta responsabilità a singole imprese, invece che alla collettività”.
Questo è Luigi Einaudi che nel 1954 risponde a una nota di Piero Calamandrei in cui quest’ultimo teorizzava la dicotomia tra il “diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Einaudi nella sua risposta – pubblicata dal Corriere della Sera del 22 ottobre scorso e disponibile sul web – nega la dicotomia, visto che nega che siano le aziende a dover fare welfare. Le aziende, si potrebbe volgarizzare, devono fare i soldi, nell’alveo di regole e legalità, contribuendo con le tasse alla redistribuzione dei redditi, compito questo invece dello Stato. Dunque non dicotomia tra successo imprenditoriale privato e welfare, ma interdipendenza.
Se non mi sono perso l’articolo del Corriere è grazie a un altro giornale, Quotidiano Energia, che ha pubblicato il 28 ottobre un pezzo di Diego Gavagnin che commenta le richieste di Unione Petrolifera in termini di protezione sul mercato europeo dei prodotti petroliferi raffinati. Mercato difficile perché da un lato i consumi hanno iniziato a flettere, dall’altro c’è la concorrenza dei biocarburanti.
Inciso: qualche giorno fa The Wall Street Journal Europe dava conto dei primi casi di utilizzo di biocombustibili sui jet commerciali, in un articolo il cui titolo con un gioco di parole diceva che le aviolinee “are frying high” (stanno friggendo alto), anziché “flying high” (volando alto). In riferimento all’olio commestibile per frittura che ricondizionato è un biocombustibile.
Ora, la crisi della raffinazione italiana non è forse un caso di “impresa male gerita”, per usare l’espressione di Einaudi. Bensì di eccesso di capacità a fronte di concorrenza di altre fonti e contrazione della domanda di combustibili. Un caso come tanti nell’evoluzione economica e tecnologica. Gavagnin dubita che una protezione del settore renderebbe più ricca non solo la collettività, ma anche lo stesso settore, che se protetto perderebbe competitività. E fa l’interessante parallelismo con l’industria nucleare francese – a lungo protetta – che ora, scrive Gavagnin - non è più in grado di sostituire i vecchi impianti che stanno per cessare la produzione.
Affermazione forte, che non ho gli elementi per approfondire ora, ma su cui proverò a lavorare in qualche Derrick futuro. Ciò che per ora è lampante è che la tecnologia sostanzialmente francese dell’EPR, European Pressurized Reactor, non è per ora stata in grado di portare alla luce nessuna creatura. La prima prevista, il famigerato impianto di Olkiluoto in Filnadia, in grave ritardo di realizzazione, ha appena ammesso un nuovo aumento dei costi, ormai previsti quasi doppi rispetto ai preventivati.
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martedì 22 luglio 2014
i nodi al pettine: modello emilia
http://ilgarantista.it/2014/07/17/la-sconfitta-di-errani-e-del-modello-emilia/
La sconfitta di Errani e del modello Emilia
di Giuliano Cazzola - IL GARANTISTA, 17 luglio 2014
Sono persuaso che Vasco Errani sia una persona perbene e che la sua condanna in Appello sia la conseguenza di un classico ‘’teorema’’ (come si diceva una volta). Errani è accusato di falso ideologico per quanto riguarda una relazione predisposta dagli uffici competenti della Regione che forniva argomenti utili a scagionare il presidente dall’accusa di aver favorito l’impresa del fratello. Ma nella vicenda politica ed umana di Vasco Errani vi sono parecchi elementi che inducono ad amare riflessioni. Non più tardi di 18 mesi or sono, il nostro era una delle personalità politiche apparentemente tra le più potenti d’Italia. Presidente dell’organismo rappresentativo delle Regioni e plenipotenziario di Pier Luigi Bersani già pareva destinato ad occupare, a Palazzo Chigi, l’incarico ora ricoperto da Graziano Delrio. Poi tutto è precipitato in fretta: la mancata vittoria elettorale della coalizione di sinistra, l’impossibilità di comporre una maggioranza con il M5s (e di andare a cercarne in Aula una di straforo a causa del parere contrario del Quirinale), i mesi del governo Letta-Facta (all’insegna del ‘’nutro fiducia’’), poi la ‘’resistibile ascesa’’ di Matteo Renzi e dei suoi Puffi.
Tutto è avvenuto così velocemente che Errani, abituato ai tempi in cui la politica era ancora una cosa seria, non solo ha rifiutato, meritoriamente, di precipitarsi a salire sul carro del vincitore (come ha fatto, sgomitando, gran parte del gruppo dirigente bolognese ed emiliano-romagnolo), ma non è riuscito neppure a prefigurare una strategia alternativa per sé, rimanendo attaccato – un po’ per celia, un po’ per non morir – ad una poltrona che comunque avrebbe dovuto lasciare dopo averla occupata per quasi un ventennio.
Alla fine, Errani è caduto per un fatto imprevisto: un collegio giudicante che in appello ha ribaltato la sentenza di primo grado. Per chi si è nutrito di pane e politica tutta la vita, esserne estromessi (sia pure per propria scelta) significa dover mettere in conto un periodo di morte civile. Una sentenza non sfavorevole in Cassazione potrà riaprire, ad Errani, le porte di un altro incarico, ma la sua funzione di leader autorevole è tramontata per sempre.
Così, il Pd, nella regione che ne rappresenta la retrovia più importante, volterà definitivamente pagina, avvalendosi di quel ricambio generazionale che è il passepartout del renzismo. Si consumerà il rito delle primarie per decidere chi, tra i proconsoli del premier-ragazzino (siano essi ‘’antemarcia’’ o ‘’neoarrivi’’) dovrà avere riconosciuta la primogenitura. Venuto meno il ballon d’essai del ministro Giuliano Poletti, la sfida si giocherà tutta nel campo dei giovani democrat ; le opposizioni di centro destra dimostreranno ancora una volta la loro inconsistenza, mentre il M5s compirà un ulteriore passo verso il declino. Ma saprà il Pd darsi quelle motivazioni politiche che consentiranno ad un nuovo gruppo dirigente di mantenere quel potere che il vecchio apparato ex Pci gli consegna, ridimensionato ed ammaccato, ma ancora solido ? Se ve ne fossero ancora la cultura, l’abitudine e la capacità si dovrebbe partire – come si faceva un tempo - dall’analisi.
L’Emilia Romagna rimane, nonostante gli effetti della crisi, una delle regioni più ricche, organizzate ed attrezzate del mondo sviluppato. I suoi punti di forza sono: a) la diversificazione produttiva, nel senso che coesistono importanti insediamenti e attività in grado di coprire un ampio ventaglio merceologico, sia con un’alta capacità di integrazione (tipico è il caso dei distretti industriali), sia con una qualificata specializzazione (ad esempio, la zona delle ceramiche, il turismo, l’industria alimentare e quant’altro); b) un’ elevata sinergia tra diversi tipi di impresa, con un netto prevalere di un tessuto di imprese piccole e medie assai qualificate, inserite in circuiti organizzati e fortemente proiettate sul terreno dell’export; c) un terziario efficiente in grado di fornire servizi adeguati; d) una tenuta dell’occupazione anche femminile; e) una struttura portante che poggia sul lavoro autonomo; f) una pubblica amministrazione che ha bene impiegato le risorse consistenti avute a disposizione negli anni passati, creando una rete di servizi pubblici molto estesa che ha accompagnato la crescita economica e lo sviluppo produttivo, temperandone le inevitabili contraddizioni; g) una qualità sociale, autonoma e solidale che emerge nei momenti di grande difficoltà, come si è potuto constatare in occasione del terremoto. Insomma, la regione, intesa come comunità, è stata il laboratorio – per tanti motivi – di un ‘’compromesso socialdemocratico’’ di alto livello: grazie ai flussi di spesa pubblica, le amministrazioni hanno potuto contenere le contraddizioni sociali e favorire un grande sforzo comunitario di laboriosità, impegno e dedizione al lavoro.
Ma è proprio questo ‘’compromesso’’ che oggi non tiene più e che è entrato ovunque in crisi:
a) Le convenienze classiche del “modello emiliano” sono praticamente esaurite, in quanto fondate su flussi di spesa pubblica già abbondanti in passato, ora in via di riduzione per effetto delle politiche di risanamento finanziario in cui è impegnato il Paese;
b) a fronte dei cambiamenti in atto e a quelli che si annunciano vanno affrontati con decisione i temi attinenti alla popolazione (che in larga misura si saldano, da un lato, con gli aspetti del declino demografico, dall’altro, con gli ingenti flussi immigratori), e all’architrave dello sviluppo dei prossimi decenni, assolutamente dipendente da un ridisegno delle infrastrutture portanti del territorio regionale, la cui inadeguatezza è la causa prevalente del rischio di declino economico e sociale, mentre potrebbe esserne il volano di un nuovo modello di sviluppo, proprio per la collocazione fisico-geografica che la regione vanta in Italia e in Europa;
c) la sicurezza (intesa come tranquillità e incolumità personale, salvaguardia della propria libertà di circolazione e dei propri averi e beni) è ormai divenuta una prioritaria esigenza di un sistema democratico, a cui anche il contesto regionale e delle autonomie locali non può sottrarsi nel portare avanti un proprio progetto di iniziative.
La Sinistra non è in grado di affrontare tali cambiamenti, perché ne è impedita dal suo blocco sociale di riferimento, il quale non è capace di uscire dal tradizionale “modello”: alta fiscalità, alta spesa pubblica, forte presenza dell’amministrazione pubblica, estesa protezione sociale, eccesso di regolamentazione e di concertazione. Fino ad oggi, sia la Regione, sia gli enti locali emiliano-romagnoli, piuttosto che adottare modifiche importanti della tradizionale linea di condotta hanno preferito resistere, stringere la cinghia, ma salvare tutto. Nella speranza che, prima o poi, si faccia ritorno ad un uso salvifico delle finanze pubbliche. In questa difesa dell’esistente la Sinistra è avvantaggiata per l’assenza, nel centro destra, di un progetto alternativo. Ma l’economia ha delle ragioni che la politica, prima o poi, sarà costretta a subire.
La sconfitta di Errani e del modello Emilia
di Giuliano Cazzola - IL GARANTISTA, 17 luglio 2014
Sono persuaso che Vasco Errani sia una persona perbene e che la sua condanna in Appello sia la conseguenza di un classico ‘’teorema’’ (come si diceva una volta). Errani è accusato di falso ideologico per quanto riguarda una relazione predisposta dagli uffici competenti della Regione che forniva argomenti utili a scagionare il presidente dall’accusa di aver favorito l’impresa del fratello. Ma nella vicenda politica ed umana di Vasco Errani vi sono parecchi elementi che inducono ad amare riflessioni. Non più tardi di 18 mesi or sono, il nostro era una delle personalità politiche apparentemente tra le più potenti d’Italia. Presidente dell’organismo rappresentativo delle Regioni e plenipotenziario di Pier Luigi Bersani già pareva destinato ad occupare, a Palazzo Chigi, l’incarico ora ricoperto da Graziano Delrio. Poi tutto è precipitato in fretta: la mancata vittoria elettorale della coalizione di sinistra, l’impossibilità di comporre una maggioranza con il M5s (e di andare a cercarne in Aula una di straforo a causa del parere contrario del Quirinale), i mesi del governo Letta-Facta (all’insegna del ‘’nutro fiducia’’), poi la ‘’resistibile ascesa’’ di Matteo Renzi e dei suoi Puffi.
Tutto è avvenuto così velocemente che Errani, abituato ai tempi in cui la politica era ancora una cosa seria, non solo ha rifiutato, meritoriamente, di precipitarsi a salire sul carro del vincitore (come ha fatto, sgomitando, gran parte del gruppo dirigente bolognese ed emiliano-romagnolo), ma non è riuscito neppure a prefigurare una strategia alternativa per sé, rimanendo attaccato – un po’ per celia, un po’ per non morir – ad una poltrona che comunque avrebbe dovuto lasciare dopo averla occupata per quasi un ventennio.
Alla fine, Errani è caduto per un fatto imprevisto: un collegio giudicante che in appello ha ribaltato la sentenza di primo grado. Per chi si è nutrito di pane e politica tutta la vita, esserne estromessi (sia pure per propria scelta) significa dover mettere in conto un periodo di morte civile. Una sentenza non sfavorevole in Cassazione potrà riaprire, ad Errani, le porte di un altro incarico, ma la sua funzione di leader autorevole è tramontata per sempre.
Così, il Pd, nella regione che ne rappresenta la retrovia più importante, volterà definitivamente pagina, avvalendosi di quel ricambio generazionale che è il passepartout del renzismo. Si consumerà il rito delle primarie per decidere chi, tra i proconsoli del premier-ragazzino (siano essi ‘’antemarcia’’ o ‘’neoarrivi’’) dovrà avere riconosciuta la primogenitura. Venuto meno il ballon d’essai del ministro Giuliano Poletti, la sfida si giocherà tutta nel campo dei giovani democrat ; le opposizioni di centro destra dimostreranno ancora una volta la loro inconsistenza, mentre il M5s compirà un ulteriore passo verso il declino. Ma saprà il Pd darsi quelle motivazioni politiche che consentiranno ad un nuovo gruppo dirigente di mantenere quel potere che il vecchio apparato ex Pci gli consegna, ridimensionato ed ammaccato, ma ancora solido ? Se ve ne fossero ancora la cultura, l’abitudine e la capacità si dovrebbe partire – come si faceva un tempo - dall’analisi.
L’Emilia Romagna rimane, nonostante gli effetti della crisi, una delle regioni più ricche, organizzate ed attrezzate del mondo sviluppato. I suoi punti di forza sono: a) la diversificazione produttiva, nel senso che coesistono importanti insediamenti e attività in grado di coprire un ampio ventaglio merceologico, sia con un’alta capacità di integrazione (tipico è il caso dei distretti industriali), sia con una qualificata specializzazione (ad esempio, la zona delle ceramiche, il turismo, l’industria alimentare e quant’altro); b) un’ elevata sinergia tra diversi tipi di impresa, con un netto prevalere di un tessuto di imprese piccole e medie assai qualificate, inserite in circuiti organizzati e fortemente proiettate sul terreno dell’export; c) un terziario efficiente in grado di fornire servizi adeguati; d) una tenuta dell’occupazione anche femminile; e) una struttura portante che poggia sul lavoro autonomo; f) una pubblica amministrazione che ha bene impiegato le risorse consistenti avute a disposizione negli anni passati, creando una rete di servizi pubblici molto estesa che ha accompagnato la crescita economica e lo sviluppo produttivo, temperandone le inevitabili contraddizioni; g) una qualità sociale, autonoma e solidale che emerge nei momenti di grande difficoltà, come si è potuto constatare in occasione del terremoto. Insomma, la regione, intesa come comunità, è stata il laboratorio – per tanti motivi – di un ‘’compromesso socialdemocratico’’ di alto livello: grazie ai flussi di spesa pubblica, le amministrazioni hanno potuto contenere le contraddizioni sociali e favorire un grande sforzo comunitario di laboriosità, impegno e dedizione al lavoro.
Ma è proprio questo ‘’compromesso’’ che oggi non tiene più e che è entrato ovunque in crisi:
a) Le convenienze classiche del “modello emiliano” sono praticamente esaurite, in quanto fondate su flussi di spesa pubblica già abbondanti in passato, ora in via di riduzione per effetto delle politiche di risanamento finanziario in cui è impegnato il Paese;
b) a fronte dei cambiamenti in atto e a quelli che si annunciano vanno affrontati con decisione i temi attinenti alla popolazione (che in larga misura si saldano, da un lato, con gli aspetti del declino demografico, dall’altro, con gli ingenti flussi immigratori), e all’architrave dello sviluppo dei prossimi decenni, assolutamente dipendente da un ridisegno delle infrastrutture portanti del territorio regionale, la cui inadeguatezza è la causa prevalente del rischio di declino economico e sociale, mentre potrebbe esserne il volano di un nuovo modello di sviluppo, proprio per la collocazione fisico-geografica che la regione vanta in Italia e in Europa;
c) la sicurezza (intesa come tranquillità e incolumità personale, salvaguardia della propria libertà di circolazione e dei propri averi e beni) è ormai divenuta una prioritaria esigenza di un sistema democratico, a cui anche il contesto regionale e delle autonomie locali non può sottrarsi nel portare avanti un proprio progetto di iniziative.
La Sinistra non è in grado di affrontare tali cambiamenti, perché ne è impedita dal suo blocco sociale di riferimento, il quale non è capace di uscire dal tradizionale “modello”: alta fiscalità, alta spesa pubblica, forte presenza dell’amministrazione pubblica, estesa protezione sociale, eccesso di regolamentazione e di concertazione. Fino ad oggi, sia la Regione, sia gli enti locali emiliano-romagnoli, piuttosto che adottare modifiche importanti della tradizionale linea di condotta hanno preferito resistere, stringere la cinghia, ma salvare tutto. Nella speranza che, prima o poi, si faccia ritorno ad un uso salvifico delle finanze pubbliche. In questa difesa dell’esistente la Sinistra è avvantaggiata per l’assenza, nel centro destra, di un progetto alternativo. Ma l’economia ha delle ragioni che la politica, prima o poi, sarà costretta a subire.
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domenica 20 luglio 2014
piccolo è bello?
E’ da quando
raggiunsi la maggiore età che evito per quanto possibile di abitare in città,
dove pure sono nato e cresciuto. Amo la natura in modo sensuale, tanto che
nonostante una vita piuttosto zingara ho abitato quasi sempre in situazioni quasi
estreme di mare o di campagna.
Tuttavia a
differenza, credo, dei tanti che hanno preferenze simili alle mie, io amo anche
la città, purché grande; amo buttarmici dentro con voluttà ogni qualvolta vengo
assalito da irresistibili pulsioni comunitaristiche come trovare in un’unica caotica
strada le cartucce per la stampante, i miei Levi’s 501 nuovi a sostituire
quelli di vent’anni fa, quell’introvabile punta di trapano per vetro e
ceramica, le batterie per l’auricolare Amplifon, le scarpe…..no, le scarpe da
uomo taglia 39 no, ormai le portano solo i cinesi, le trovo solo da Decathlon, fuori città (molto). Il tutto
senza che uno che non ti ricordi chi è ti riconosca e ti blocchi per mezz’ora in quella strada puzzolente per sapere come hai
passato l’ultima settimana.
Per un tuffo tra i
vecchi amici invece a volte mi tocca attraversare tutta la città, e perfino
questo trovo quasi emozionante, naturalmente non oltre un paio di volte l’anno.
E poi via di corsa, rinunciando senza alcun rimpianto a cinema, concerto,
movida e quant’altro, verso il mio eremo da cui monitorare mondo e umanità
senza il fragore del superfluo.
Quello che invece non
riesco proprio ad amare è il piccolo centro abitato, quello in cui tutti si
conoscono senza conoscersi, costretti come sono a indossare maschere come
artifici a difesa della propria intimità assediata. Potresti pensare “peggio
per loro, io che c’entro?”, ma è un’ingenuità razionalista. Potresti mostrarti
per quello che sei, nella tua integrità, in pratica un diverso, un marziano da
apartheid; ma non potresti evitare, passando per la via o rispondendo al saluto
cortese del vicino o del conoscente, di vedere o ascoltare immagini e pensieri
che ti fanno accapponare la pelle, quasi che abbiano il potere di azzerare
tutte le fatiche (e ce ne vogliono) da te fatte per continuare ad amare l’umanità.
Eccone un esempio.
Questa è la bella piastrella di ceramica che fa bella mostra di sé all’entrata
di un’abitazione niente male in un centro niente male di settemila anime:
A prescindere dal suo aspetto
estetico, da quando ho riflettuto su tale asserzione, anche senza leggere io
non riesco più a passare davanti a quella casa senza rabbrividire. E’ come se
sentissi minacciati decenni di duro lavoro interiore fatto per liberare il mio
essere dalla sudditanza agli “altri”, alle loro opinioni, alla loro invasività.
Ma soprattutto mi angoscia pensare a quale livello d’infelicità può portare il “conoscersi tutti”- trasformato in “controllo sociale” nel piccolo mondo chiuso - per ridurre una persona a fare della (presunta, di solito) invidia altrui una motivazione tanto importante nella propria vita da richiedere o addirittura da suscitare una forza uguale e contraria, in un avvitamento di cattivi sentimenti capace di smentire ogni utopia sulla solidarietà nel “piccolo è bello”.
Ma soprattutto mi angoscia pensare a quale livello d’infelicità può portare il “conoscersi tutti”- trasformato in “controllo sociale” nel piccolo mondo chiuso - per ridurre una persona a fare della (presunta, di solito) invidia altrui una motivazione tanto importante nella propria vita da richiedere o addirittura da suscitare una forza uguale e contraria, in un avvitamento di cattivi sentimenti capace di smentire ogni utopia sulla solidarietà nel “piccolo è bello”.
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