mercoledì 1 febbraio 2012

bioetica: vita e persona





Corriere della Sera, Mercoledì 26 Gennaio 2005, pag. 1 e 13

LE DOMANDE DEI CATTOLICI
EMBRIONI: NON ESISTE L’ORA X
                                   di Edoardo Boncinelli 


Non avrei mai immaginato che qualcuno si potesse interessare tanto al dettaglio cronologico delle prime fasi della formazione dell’embrione. Ma sento e leggo di continue dispute sull’argomento, tanto più accese quanto più confuse.
Ci si chiede quando comincia la vita umana*; se due giorni dopo la fecondazione si può già parlare di essere umano oppure no; oppure se occorre per questo aspettare la fine della seconda settimana; se l’embrione è un individuo in potenza o in atto e via discorrendo.
Antonio Socci, in un’intervista pubblicata dal Corriere lunedì scorso, vuole sapere in quale momento preciso l’embrione diventa essere umano (“Da anni – dice Socci – noi cattolici poniamo una domanda: se l’embrione al primo stadio non è un essere umano, qualcuno dovrebbe dire in quale momento preciso lo diventa e non così, per convenzione, ma con un certo appiglio scientifico”). Si mischiano e si confondono in queste polemiche concetti molto diversi come quello di vita, di essere umano, di concepito, di embrione, di individuo e di persona, umana o giuridica.
Cominciamo con l’inizio della vita di un organismo. Non c’è dubbio che la vita di un organismo specifico – ranocchio, gatto o uomo – inizia con la fecondazione, cioè con la congiunzione di un gamete maschile, lo spermatozoo, e uno femminile, la cellula-uovo o ovocita maturo.
Il processo dura diverse ore, per cui non è facile dire esattamente quando inizi la nuova vita, ma certamente una condizione necessaria per poter parlare di un nuovo organismo è che si combinino tra loro i Dna dei due genomi, quello paterno e quello materno, per dar vita ad un menoma nuovo e molto probabilmente unico.
L’uovo fecondato prende il nome di zigote. E’ una singola cellula, ma si mette subito in moto per duplicarsi e dare due cellule, poi quattro, poi otto, poi sedici. Fino a questo punto ha la forma di una minuscola mora e prende non a caso il nome di morula. A partire dallo stadio di 32 cellule, all’interno della massa compatta della morula si forma una minuscola cavità. Si è passati così allo stadio di blastula o più precisamente di blastocisti. Il numero di cellule continua a crescere, anche se lentamente; la cavità s espande e verso il quarto giorno comincia a vedersi una masserella di cellule. Questa masserella è chiamata massa cellulare interna dagli autori anglosassoni mentre da noi viene detto in genere embrioblasto o, in una fase leggermente più avanzata, bottone embrionale. Da questa masserella e solo da questa trarrà origine il futuro embrione, mentre tutto quello che c’era prima e che c’è intorno ad essa a questo stadio contribuirà soltanto a formare le membrane delle quali l’embrione avrà bisogno per nutrirsi durante la gestazione, ma che alla fine del parto verranno gettate via. Occorre notare che questa caratteristica riguarda solo i mammiferi, mentre non ha l’uguale in altre categorie di animali. Sarebbe molto interessante soffermarsi su questa osservazione, ma non è ora il caso. Può accadere in questo stadio che all’interno della stessa blastocisti, di masserelle cellulari interne se ne formino due (o tre) invece di una sola. In questo caso si giungerà ad avere due (o tre) gemelli, cosiddetti identici, invece di un solo individuo.
Fino a questo punto tutto è avvenuto all’interno della tuba e la blastocisti è ancora libera di vagare. Non sopravvivrebbe però a lungo se non si impiantasse, attraverso una complessa successione di eventi, nel tessuto dell’utero materno, dal quale trarrà d’ora in poi il nutrimento. La fase dell’impianto nell’utero è una fase molto critica, passata la quale la blastocisti ce l’ha quasi fatta e l’embrioblasto che quella contiene può cominciare a nutrire qualche fiducia nella possibilità di dar luogo ad un bambino o ad una bambina.
E’ bene notare però che al suo interno l’embrioblasto non ha ancora una minima traccia di polarità. Non sa ancora, in parole povere, dove avrà la testa e dove la coda. I primi segni di questa polarità testa-coda compaiono all’interno dell’embrioblasto verso la fine della seconda settimana di gestazione. A circa tredici giorni si comincia a distinguere un asse corporeo principale e il giorno successivo, il quattordicesimo, i primi tenui segni di un sistema nervoso centrale e di una struttura spinale. A questo stadio il bottone embrionale, lungo poco più di un decimo di millimetro, comincia progressivamente a prendere la forma definita di embrione. Compariranno ancora altri organi e tutti quanti dovranno crescere di dimensioni e maturare,  ma lo schema generale del corpo è già lì. Sullo sfondo di questa successione di eventi possiamo ora porci domande più specifiche.
Quando comincia la vita? Senza voler cavillare che la vita è cominciata una volta sola quasi quattro miliardi di anni fa, possiamo affermare, come già detto, che la vita di un particolare organismo comincia in condizioni normali con la fecondazione, cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno. Non è un processo istantaneo per cui non ha senso chiedersi esattamente il momento di questa unione. Lo zigote così ottenuto è un individuo? E, soprattutto, è un individuo la morula di otto o sedici cellule presente il giorno dopo, cioè il secondo giorno di gestazione, quando si può eseguire, volendo, una diagnosi reimpianto? E’ certamente un progetto di individuo, ma lo diverrà effettivamente soltanto nel 15-20% dei casi, perché la maggioranza delle morule non porterà, anche in condizioni normali, a nessun embrione e una percentuale non trascurabile di queste porteranno a due o più embrioni. E’ bene notare che è una fortuna che non tutte le morule giungano a dare un embrione. Si tratta infatti di un fondamentale “periodo di prova” durante il quale le morule che potrebbero dar luogo a embrioni difettosi vengono “saggiate” dalla natura e eventualmente scartate.
Quando comincia l’embrione? Se per embrione intendiamo l’insieme delle parti che formeranno il suo corpo, queste non compaiono prima del quarto-quinto giorno. Prima non ci sono e fino al dodicesimo giorno sono assolutamente informi.
Quando è che l’embrione è un essere senziente? Non lo sappiamo con certezza, ma è difficile pensare che ciò possa accadere, anche solo potenzialmente, prima della comparsa di una minima traccia di sistema nervoso, comparsa che si registra il quattordicesimo giorno.
Quando è che un embrione diventa persona e come tale gode dei diritti scritti e non scritti spettanti ad una persona? Questa è una domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale e qui mi fermo. Ma non senza aver notato che alla fin fine è questa l’unica domanda rilevante, alla quale tutti siamo chiamati a dare una risposta, anche provvisoria e rivedibile. Per noi e per i nostri figli.
Dal punto di vista biologico non c’è nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita e oltre. Questo non significa che non si possano porre degli spartiacque, come quando si è deciso che a 18 anni una persona è maggiorenne. Non succede niente di particolare a 18 anni, ma la convenzione umana ha fissato questo limite e a volte lo ha anche cambiato. Una convenzione, appunto. Non possiamo chiedere alla natura o alla scienza di cavare le castagne dal fuoco al posto nostro. Occorre prenderci le nostre responsabilità e fissare dei limiti che non potranno che avere una componente di convenzionalità. D’altra parte è una scelta che spetta all’uomo in una autentica prospettiva umanistica.

*ndr: il grassetto non è nell'originale

mercoledì 18 gennaio 2012

cultura senza conoscenza






La STAMPA 27/05/2011 - INTERVISTA

Vargas Llosa "Attenti 
agli spacciatori di cultura"


"Trionfano l'immagine e l'intrattenimento" Lo j'accuse del Nobel peruviano
che presenta in Italia "Il sogno del celta"


RENATO RIZZO
TORINO

Gli anni sono stati leggeri con lui: ha il volto senza una stropicciatura, proprio come il suo abito grigio di ottimo taglio, e il sorriso del cosmopolita che ha vissuto il mondo senza dissiparsi e lo sa guardare con cauto ottimismo pur avvertendone gli scricchiolii. Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura nel 2010, è un intellettuale che alterna il microscopio al telescopio: nelle sue opere indaga gli aspetti più reconditi dell’animo umano e, nello stesso tempo, sa leggere l’ordine del pianeta facendo della realtà della storia il punto di partenza del proprio lavoro. Come accade nel suo ultimo libro, Il sogno del celta, nel quale racconta la vita leggendaria d’un irlandese, Roger Casement, che, seguendo la scia di sangue lasciata in Africa e nell’America del Sud dal colonialismo tra Otto e Novecento, dedica l’esistenza alla lotta senza quartiere contro questa piaga sino a salire, martire di un’idea, sul patibolo.

Se si sforza di leggere, oggi, l’ordine del pianeta, che cosa vede attraverso le sue lenti di intellettuale che, come dice lei, «non ha paura di sporcarsi le mani con la vita»?
«Scorgo, soprattutto, una preoccupante deriva culturale. Il nostro tempo sembra correre cantando verso la frivolezza e la banalizzazione.
La cultura ha perso la sua nobiltà, sta diventando intrattenimento. E curiosamente, ma neppure troppo, ciò avviene non nel Terzo Mondo, ma nel Primo. È un’analisi alla quale mi sto dedicando e che sarà il focus d’un mio prossimo saggio».

Forse non a caso l’aggettivo «divertente» è tra i più usati nel nostro linguaggio e sembra aver soppiantato il termine «bello»: è divertente una mostra, un’opera teatrale, un libro...
«Vede,
la cultura è anche divertimento, ma se è solo divertimento non è più cultura. Stiamo assistendo alla vittoria dell’immagine, all’imposizione di forme d’intrattenimento che devono essere forzatamente facili e accessibili alla maggioranza delle persone. Questa smania di semplificazione ha fatto sì che lo stesso termine “cultura” perdesse il suo significato originario. E intravedo il pericolo che non solo disimpariamo a discernere, appunto, tra categorie come bello e brutto, ma addirittura tra buono e cattivo (*). Così l’idea di una cultura alla portata di tutti ha condotto al collasso i valori con i quali si giudicava la cultura stessa».

Qualcuno potrebbe vedere in questo sfogo una difesa elitaria e obiettare che l’ampliamento della base culturale ha molto  a che vedere con la democrazia.
«La democrazia consiste nel diffondere e rendere accessibili a tutti i prodotti culturali
senza snaturarli. Devono parlare i fatti, non le statistiche dei musei. È possibile che un Damien Hirst spacci per arte uno squalo di quattro metri messo in una vasca di formaldeide? Pagliacciate. Quando tutto è cultura, niente è cultura».

Torniamo alla storia. Roger Casement, il protagonista del romanzo, dimostra con la sua lotta al colonialismo quanto la civiltà che arrivava dall’Europa con l’ipocrita impegno di «salvare» i senza diritto, soprattutto africani, fosse in realtà solo oppressione e sfruttamento. Ora nel Maghreb, e non solo, s’è levato un vento di libertà che squarcia un angolo di pianeta in cui sfruttamento e oppressione non hanno mai avuto interruzione. 
«Quel che accade in quei Paesi è fantastico: per la prima volta un movimento non religioso si ribella a satrapie medievali. Chiede libertà, vuole lavoro. Dobbiamo esserne contenti e dare la nostra solidarietà a questa gente stanca d’essere vessata, proprio come facevano i produttori di caucciù con i congolesi di cui parlo nel libro».

A dire il vero in Europa - e in Italia, in particolare, terra d’approdo di tanti uomini e donne sospinti dalla speranza d’una vita meno grama - c’è chi osserva: «Una volta eravamo noi a invadere l’Africa, adesso è l’Africa a colonizzarci condannando alla disoccupazione i nostri figli e “contaminandoci” con culture estranee».
«Pregiudizi assurdi, il risveglio di vecchi demoni che credevamo sopiti. Gli immigrati riempiono i vuoti del mondo dell’occupazione: vanno dove c’è bisogno di loro. Certo, servono regole, permessi, sicurezza, ma l’arrivo e l’integrazione di queste persone è indispensabile per un Occidente dove sempre meno gente mantiene sempre più gente. E, poi, non sono “il male”. Gli Stati più prosperi sono quelli che hanno aperto le frontiere: cosa sarebbe l’Europa, oggi, se non avesse avuto, al proprio interno, le migrazioni di portoghesi, spagnoli, greci e italiani?».

Giovani in rivolta nell’Africa del Nord, ma anche alle nostre latitudini. In Spagna gli «indignados» gridano la voglia di vivere in una società nuova, con una politica nuova.
«È un fenomeno in cui si legano due aspetti: da un lato la legittima protesta di ragazzi e ragazze che hanno studiato, si danno da fare e hanno di fronte la prospettiva d’una esistenza indecorosa, senza lavoro in un Paese che ha il 20% di disoccupazione. L’altra faccia della medaglia mostra un rischio terribile:
che l’indignazione diventi rifiuto degli strumenti e dei meccanismi partecipativi».

Tutti contro tutto, dice lei?
«Io sostengo che se i partiti e le istituzioni non esercitano le proprie funzioni bisogna curarli, non reclamarne l’eliminazione. Se gli amministratori sono corrotti bisogna sostituirli. Se hanno comportamenti sconvenienti, anche da un punto di vista sessuale, condannarli perché un atto privato, per un politico, ha sempre un’importanza pubblica. Certo, a questo proposito guardo a quanto è successo a Strauss-Kahn in Usa e mi domando
: sarebbe accaduta la stessa cosa, con la stessa rapida inflessibilità, in Francia, in Spagna o in Italia?».

Vede in questo movimento una riedizione riveduta e corretta del Sessantotto? 
«Il Sessantotto, secondo me, è stato una sorta di bello spettacolo che non ha risolto i problemi per i quali lottava. “Proibito proibire” era solo una frase pericolosamente letteraria. Credo che los indignados potranno esportare, in qualche modo, la loro protesta anche in altri Paesi, ma devono rendersi conto che stanno inquadrando come bersaglio qualcosa di più importante di partiti e istituzioni: la democrazia stessa.
Si interroghino: se non funziona la democrazia, che cosa funziona? La dittatura? »


(*)  Nota di Rottamatoio: L’arte è solo una parte, ma importante, della cultura. Può fare a meno della conoscenza, rifiutare l’oggettività dell’estetica (il bello e il brutto) e fregarsene dell’etica (il bene e il male)? Sarebbe ancora cultura? (vedi il titolo dell’intervista)

sabato 14 gennaio 2012

politica: verbis vs polis: parole, parole, paroleee....e la chiamano politica


La Stampa, 29 mag. 2011
La parola politica specchio del nulla
di Guido Ceronetti

    Parlare non è emettere parole. Se si pensa quel che si dice, c’è da ammutolire. Il politico, avendo perso quasi dappertutto il rapporto tradizionale con l’azione, emette parole, ed è questo il principio e la fine del suo agire. Il mondo viene modellato e organizzato a partire da enormi enfiature di parole che surrogano l’azione – che non compiamo più – e che il capo politico ha compiuto talvolta prima di esercitare un potere fatto esclusivamente di parole il cui fondamento è meramente grammaticale. Mussolini, dopo la Marcia – in verità, non avendola materialmente fatta, fin da prima, dal 1919, diventato lui stesso gigantesco silos di parole, organizza il mondo emettendo dei battaglieri, cadenzati e a loro modo efficaci reggimenti di fonemi.
    Il caso Berlusconi è straordinariamente emblematico. Dietro di sé non ha mai avuto un agire: fin da subito organizza il mondo aziendale attorno a sé adoperando esclusivamente lo strumento parola, di cui non conserva neppure la superficie semantica – gli basta la pura struttura sintattica-grammaticale. Attraverso la macchina dell’industria di trasformazione televisiva, dal mondo aziendale passa, con estrema facilità, ad organizzare il mondo di una nazione come l’Italia, già resa frolla da migliaia di trasmissioni, e in brevissimo tempo, con una campagna elettorale compiuta a passo di corsa, l’Italia violentata magicamente e resa madre di nulla, madre delle stesse parole che in giudizi e pensieri saranno state emesse dai teleschermi.
    Si spiega l’indifferenza berlusconiana per i significati, il contenuto magmatico delle sue parole di difesa, d’attacco e di smentita del tutto privo di sostanza e di valore morale. Semanticamente, le sue parole non vogliono significare nulla, come non vogliono significare nulla quelle di chi rimprovera a lui il nulla del suo significare. Tutti possono dire qualsiasi cosa: la forza delle parole sta tutta, terribilmente, nel loro scorrere e affluire alle menti, anche le più intelligenti (nota bene!), e persuaderle di qualche verità inesistente, in quanto mondi di parole, architetture di franamenti silenziosi.
    Nella realtà inesistente delle parole che non hanno peso né significato, sebbene possano seriamente essere captate, discusse, proposte come se ne avessero, Berlusconi non è affatto un’anomalia. Giudicare che lo sia è un’obiezione simmetrica di un contrasto che patisce della stessa privazione di significato. In questo senso, Berlusconi non ha (né potrà mai avere) vera opposizione. Vivrà politicamente ben al di là del suo stesso tramonto.
    Un parallelismo estremamente indicativo ce lo dà oggi lo stesso presidente degli Stati Uniti. Se misuriamo il discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln a un qualsiasi intervento oratorio di Obama, intravediamo l’abisso tra la parola che significa e crea mondo reale, e quella che propaga messaggi che colpiscono, attraggono voti, capitali, ovazioni, commenti mondiali, analisi critiche, senza mordere realtà gravide di strati, senza organizzare il mondo come a Gettysburg, rivoltarlo de profundis, o anche, semplicemente, mantenere una promessa elettorale. Obama è il primo presidente degli Stati Uniti in cui l’azione appare completamente svincolata dal Dire ed è tutta etero diretta rispetto a colui che parla.

    Un esempio recentissimo: Obama riprende l’utopia adulatrice e triviale dei Due Stati (il Gòlem-Palestina e l’eternamente in guerra Israele) e sorprendentemente rilancia la stessa retorica dell’ultimo Arafat: il ritorno dei confini israeliani al 1967. L’avesse detto Berlusconi si sarebbe detto: va beh, è Berlusconi….Ma Berlusconi sarebbe stato meno imprudente! Non c’è parola in grado di risolvere un nodo così stregato: né patto tra le parti, né interventi di altri a cui non preme che dire senza significare; perciò abbiamo ben più da temere che da sperare. La proposta ventosa di Obama, se fosse obbedita, portemente drittamente al suicidio di Israele e al reimbarco sull’Exodus dei superstiti. Perché farla, buon uomo?

    Una lingua senza più ormeggi, senza misura né controllo etico serrato sfocia, nell’agorà politica, giudiziaria, scolastica, in un bacino d’incontinenza verbale in fradice sequele di dichiarazioni insensate, di propositi assurdi, di smentite e rinnegamenti a ruota di qualsiasi cosa sia detta o pronunciata pubblicamente.
    L’insignificanza non è innocua; quella di cui soffre il dire non è episodica; sono colpi di scure ripetuti ai piedi dell’albero Ragione. Quando non prevale che il luogo comune e il sermone corre su binari che sembrano rassicuranti perché privi di novità, allore si affaccia il Pensiero Unico e ci manetta tutti, dai capi dello Stato e dal sindaco al barbone, dal cardinale al famelico sbarcato.
    Nei reni del Pensiero Unico si annida una violenza totalitaria metastatica, impaziente di qualsiasi ostacolo (legale, tradizionale, nazionale, ecologico), adattabile ad ogni tipo di regime, che bene o male spacciandosi per neoliberalismo economico trova il suo micidiale strumento pervasivo nel linguaggio politico e di relazione che, ripeto, non ha fondamento reale e non significa che sé stesso – figlio di Beliàl, dice la parola scritturale, cioè del Nulla come entità maligna.
    L’unica buona regola è diffidare sempre, non credere a nessuno, rigettare ogni predica, il consenso autorevole, l’assoluzione dissolvente…

                                                                        -oOo-

"Ho l'abitudine di dire quello che penso e di fare quello che dico. Piuttosto originale, in politica; ve l'assicuro." - Emma Bonino


domenica 8 gennaio 2012

governo e governati


   Nell'alto Lazio, quando un allevatore deve portare il fieno alle mucche o le pecore al pascolo, usa l'espressione "vado a governare le bestie", dove bestie non ha nulla di offensivo, significa solo bestiame; quello che colpisce è l'uso del termine "governare" come sinonimo di sfamare.
   Mi chiedo, guardando alla nostra storia anche recente, se nel senso comune della maggioranza degli italiani (anche se non nel loro linguaggio) non ci sia esattamente lo stesso significato. Dall'alto (o dal basso) della mia veneranda età, non posso fare a meno di notare il ripetersi di un ciclo in 6 fasi, come segue:


1 - quasi tutti noi italiani, dopo una fase di tribolazioni e batoste, scopriamo un uomo della provvidenza, lo acclamiamo "governante" ( Re, Duce, Presidente ecc.), e lo carichiamo di aspettative messianiche. Continuando a sgobbare.
2 - segue un periodo in cui il rapido miglioramento della situazione prodotto dal nostro sgobbare viene regolarmente accreditato a merito del suddetto governante, la cui popolarità sale alle stelle.
3 - noi governati, delusi dal raggiunto benessere che non ci ha portato la felicità, cominciamo a chiedere che il lavoro venga sostituito dal posto di lavoro; oppure il raddoppio del reddito, meglio se entrambi, e ci diamo al consumismo più sfrenato. Il governante, nel vano tentativo di mantenere la propria popolarità, estrae dal proprio cilindro un coniglio demagogico (un sogno nazionalistico, una guerra, un boom drogato ecc.) e si infila nella spirale dell'indebitamento dello stato, approfittandone anche per fare un bel po' di cresta sulla spesa. Noi governati pensiamo di essere ormai una grande potenza anche se basterebbe aprire gli occhi per vedere dove si stiamo cacciando. Ma ormai ce ne freghiamo di tutto, del governante e del debito: non sappiamo che lo stato siamo noi, né lo vogliamo sapere.
4 - arriva il giorno in cui piovono bombe, o in cui i creditori, preoccupati per il livello del debito, cominciano a chiedere interessi da strozzino per rinnovare i prestiti scaduti. Noi governati scopriamo che il governante non ci sfama più, precipitiamo dalle nuvole, ci scopriamo poveri, ci indigniamo... e linciamo il governante. Accusandolo di avventurismo e di corruzione, di essersi mangiato tutto l'ammontare del debito accumulato e rifiutandoci di riconoscere le nostre colpe.
5 - dopo agitazioni e sommovimenti, tanto violenti quanto inutili, noi malgovernati ci sottomettiamo "obtorto collo" ad un masochista che raddrizzi la baracca, ma lo scambiamo subito per un sadico perché ha il difetto di dire la verità lapalissiana: "Dovete ricominciare a lavorare sodo e bene e per di più ripagare il debito". Costui si differenzia dal suo predecessore per la durata della luna di miele, che invece del solito ventennio, stavolta dura venti giorni e poi, in un coro ritmato in cui allo slogan di sinistra "evviva la rivoluzione!" si sovrappone alla perfezione quello di destra "aridatece er puzzone!" comincia quel gioco che i nostri nonni chiamavano "tre palle, un soldo" con cui alle giostre si cercava di abbattere un pupazzo con palle di stoffa. E il masochista, finito il suo "lavoro sporco", finisce presto e malconcio in soffitta.
6 - come nel gioco dell'oca, si torna al punto 1, ricominciando a sgobbare. Ma non a meditare, né tampoco ad imparare. Troveremo un nuovo uomo della provvidenza che ci racconterà, tra gli applausi, quello che vogliamo sentirci raccontare.


Proposta per rompere il circolo vizioso: chi è causa del suo mal linci sé stesso.
                                                                                                                       Candido

estetica: la più grande povertà, l'ignoranza d'esser ricchi


……………Mi venne in mente, quella volta che a Pacific Groove io stavo verniciando l’interno di una villetta che mio padre aveva costruito prima che io nascessi. L’uomo che mi aiutava era al mio fianco, e siccome nessuno dei due era pratico, ci sporcavamo tutti. A un tratto ci accorgemmo di aver finito la vernice. Io dissi: “Neal, fai una corsa da Holman e fatti dare mezzo gallone di vernice e un litro di solvente”.
   “Ma prima mi devo ripulire e cambiare” disse.
   “Ma no, vai come sei.”
   “Non posso.”
   “Ma io ci andrei.”
Mi disse una cosa saggia e memorabile: “Devi essere parecchio ricco per vestirti così male”.
   E questo non è buffo. Ed era vero anche nel giorno di festa. Debbono essere incredibilmente ricchi, i texani, per vivere in tanta semplicità………………..

John Steinbeck – Viaggio con Charley



     La grandezza di Picasso non sta, a dirla approssimativamente, nell'avanguardia ma nella tradizione. Cioè: non guardò all'avvenire ma al passato, a quel che era stato fatto e che lui, col suo grandissimo e febbrile talento, non poteva più fare. Poteva soltanto disgregare, scomporre, deformare: spesso con ironia, a volte con disprezzo, sempre con la rabbia di essere arrivato quando tutto era già stato fatto.
     Percorse così tutta la storia dell'arte, e anche tutta l'arte senza storia. E disse sull'uomo, sul passato dell'uomo, reinventandolo, rifacendolo, tutto quello che gli imbecilli oggi negano.

Leonardo Sciascia - Nero su Nero

venerdì 6 gennaio 2012

mostri: il crucconapoletano


....ovvero dramma, farsa e tragedia

    L’uso della (sola) ragione ci costa la rinuncia a due illusioni: quella, euforizzante, della vita come farsa e quella, tranquillizzante, della certezza come verità. E sostituirle con la realtà del dramma della vita e con la fatica, ma anche il fascino, della condizione umana di perpetui assetati cercatori di verità.
    Ma il prezzo della (sola) fantasia è di pagare in tragedia l’illusione della vita come farsa e la disillusione delle false certezze.

    Purtroppo l’esperienza mi insegna che un buon equilibrio tra ragione e fantasia è negato alla stragrande maggioranza degli esseri umani, il cui cervello funziona a sistema binario: uno o zero, tutto o niente, ragione o fantasia, quadrati o rotondi, tedeschi o napoletani.
    Mi ci è voluta una vita intera per raggiungere l’armonia: da entrambe le sponde sono ormai considerato un mostro: un crucconapoletano!

mostri 1 - uomo e scimpanzé

     Nel 1991 fu pubblicato a Londra il saggio "The Rise and Fall of the Third Chimpanzee" (in Italia: Il terzo scimpanzé: ascesa e caduta del primate Homo Sapiens - Bollati Boringhieri Ed. - 2006), del biologo americano Jared Diamond, in cui si spiega come e perché la scimmia ominide sia passato con rapida evoluzione, da semplice mammifero di grossa taglia a forza di dominazione dell'intero pianeta Terra.
     Ma l'analisi più originale è dedicata alla descrizione del virus che da sempre accompagna il grande progresso indubbiamente realizzato dall'uomo: il seme dell'autodistruzione, storicamente manifestatosi attraverso il genocidio, la guerra alla natura e la soggezione alla droga. Wikipedia fa giustamente notare che in ciò si riecheggia un noto tema di Simone Weil in Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale: "Ogni vittoria reca il germe di una futura disfatta".
     La cosa più curiosa, almeno per me, è che nonostante ciò Diamond, da buon antivivisezionista, partendo dall'osservazione che Homo Sapiens condivide con i due scimpanzé Pan troglodytes (sc. comune) e Pan Paniscus (sc. nano o bonobo) il 96% del proprio DNA, propone di modificare il nome di questi in Homo Troglodytes e Homo Paniscus.
     Non pare a voi che logica vorrebbe che si lasciasse ai nostri cugini scimpanzé il loro dignitoso nome attuale modificando invece quello dell'Homo Sapiens in Pan Demens?


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